INDIRIZZO
Corso Garibaldi 17
20121 Milano
ITALIA
CONTATTAMI @
Giovanni Malonni
L’ansia
Una musica lenta d’organo
sale e riempie la mia piccola
stanza assorta nell’ombra
di una quiete che dice
al mio cuore pace.
E pace in coro mi cantano
gli uccelli di sopra i tetti.
E le nuvole di lassù
si muovono leggere squarciando
a tratti il cielo blu.
Ma nulla! Invano si tenta
di sciogliere quel nodo
aggrovigliato entro al mio petto!
Madrigale triste
Vapori umidi di pioggia
si levano dai tetti e si dissolvono
nel cielo terso
portando ovunque messaggi
lugubri di morte.
Dentro persone in solitudine
raccolgono i loro corpi aggrovigliati
e contorti da spasmi
di ostinata angoscia!
A una donna Angelo
Non so se in una chiesa o per la strada,
mi sei apparsa in un attimo,
come il lampo improvviso prima del
temporale,
e la mia mente allora abbagliata
rivive della tua luce.
Rivederti o conoscerti meglio io non cerco,
anzi non voglio.
Altro non voglio che distrugga
la tua divina figura.
Regina o zingara che importa!
Venere nata dalla tempesta
o dalla schiuma del mare
che importa!
Demone o angelo che importa!
Io questo non voglio sapere -
più in là non oso.
Io voglio serbare nella mia mente
la tua candida immagine,
anche quando in me più non sarà poesia
anche quando ormai i caduchi tuoi petali
si troveran nel fango!
Ascoltare il silenzio
È osservare il sole pallido e stanco
posarsi sulla campagna.
È osservare l’ombra chiara della luna
nelle notti d’inverno.
È sentire il suono lontano
di una campana.
È l’abbaiare solitario di un cane
nella notte.
È la pedata stanca di un uomo,
il rumore di un carro
che all’alba riprende il suo cammino.
È il corpo esausto del guerriero
dopo la battaglia.
È vedere i tuoi occhi languidi
fissi all’infinito.
È il mio cuore che palpita adagio
privo di ogni sensazione.
O sordi rumori! Quando mai potrò
più risentirvi?
Dolci ricordi di un tempo!
Io sto correndo dietro al vento
e più ormai non m’accorgo,
più non vi sento!
Poesia
Opera in Concorso
Isabella Sandon Tenca
Poesia
Opera in Concorso (in definizione)
Specchi
Parlano in noi
lastre di vita
ridotte in frammenti
tracce significanti
del magico specchio
caverna antica
delle nostre paure
ridotte a riflessi confusi
Libellule
Aeree trasparenze
si librano leggere
poeticizzando la pozza
d'alta montagna.
Ed è danza musicale
Il loro accoppiarsi
La città
Alla luce del tramonto
i grattacieli di vetro
diventano specchi seriali
di luce rosa-dorata
su campo grigio acciaio
Gabbie
Ognuno sta chiuso
nella sua gabbia
di tempo, luogo e tabù.
Solo la bellezza ha le chiavi
che aprono le gabbie
Francesco Di Garbo
Libro
Opera in Concorso
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Francesco Di Garbo
Racconto
Opera in Concorso
L'EREDITÀ DELLA GUERRA
#Me ne andavo come ogni mattina con le pecore a pascolare
quando davanti a me un colono armato fino ai denti vidi sbucare
voleva che di punto in bianco andassi via dalla mia terra
sosteneva che adesso sua era diventata senza manco pagarla
esibiva un falso anomico rogito israeliano a testimoniare l'esproprio
truce con la forza tracotante delle armi mi voleva esautorare
poi una ruspa fece arrivare e in due-tre la mia casa fece crollare
non contento mi voleva ammazzare per fare piazza pulita
di tutti gli arabi in Cisgiordania e per darmi prova ch'era serio
le mie pecore prese a sventagliare tanto per morire d'inedia
volermi abbandonare in barba ai diritti umani universali
e degli accordi di Oslo stipulati e a Camp David controfirmati.#
***
Tra
le
gare
sportive
le
staffette
hanno
un
fascino
particolare.
Il
passaggio
di
testimone
entusiasma
anche
il
più
negletto
degli
spettatori.
In
effetti
non
vincono
gli
atleti,
vince
il
testimone
che
rappresenta
la
nazione
più
che
i
protagonisti.
In
sport
prettamente
individuali
le
staffette
sono
gare
collettive.
Il
testimone
deve
arrivare
al
traguardo
sano
e
salvo
senza
cadere
a
terra.
L'incidente
nel
passaggio
da
una
mano
all'altra
è
dietro
l'angolo
per
una
svista,
un'incomprensione
un
piccolo
errore
d'intesa
tra
gli
atleti.
Ciò
che
entusiasma
nelle
staffette
è
che
oltre
all'impresa
sportiva
esse
rispecchiano
il
senso
della
vita
comunitaria.
L'impresa
singola
pur
essendo
intrisa
di
motivi
ed
aspetti
esistenziali
rimane
fine
a
se
stessa
all'interno
della
specifica
storia
individuale.
Nel
suo
corrispettivo
comunitario
l'impresa
collettiva
delle
staffette
riguarda
il
passaggio
generazionale familiare o di comunità.
Il
testimone
assume
un
valore
metaforico
e
simbolico
non
indifferente
per
la
vita
umana
volta
a
tramandare
e
trasmettere
alle
generazioni
future
le
conoscenze
e
i
fatti
del
passato,
facendo
proprie
le
esperienze
vissute
per
rinnovarle
nel
futuro
ad-venire.
E
semmai
modificarle
e
perfezionarle
per
migliorare
l'esistenza
familiare
o
collettiva.
La
tradizione
tramandata
non
può
restare
statica
com'era
nel
passato,
ma
dal
passato
va
preso
cosa
c'era
di
buono
depurandolo
da
cosa
non
andava
e
riadattare
la
tradizione
alle
nuove
esigenze.
Tuttavia
si
ha
la
sensazione
che
dalla
tradizione
viene
preso
cosa
c'era
di
cattivo
per
perpetuare
le
ingiustizie
e
le
disuguaglianze,
mentre
il
buono
viene
accantonato;
sembra
che
la
storia
non
ci
insegni
nulla
e
ricommettiamo
sempre
gli
stessi
errori.
Chi
ha
in
mano
le
leve
del
potere
si
abbarbica
alla
tradizione
in
questo
senso
per
continuare
a dominare senza cambiare nulla. Di contro predicano il cambiamento per continuare ad avere in mano le leve del potere: quindi razzolano male.
Il
testimone
ha
valore
quando
le
cose
cambiano
sia
nelle
persone
quanto
nei
fatti,
non
per
razionalizzare
la
realtà,
ma
per
renderla
razionale
secondo
i
criteri
e
i
principi
logici
e
non
solo
matematici.
oggigiorno
invece
domina
la
quantità
a
discapito
della
qualità,
la
quantificazione
della
guerra a discapito della qualificazione della pace.
È
sempre
successo
nella
storia
che
i
morti
hanno
lasciato
il
testimone
ai
vivi
affinché
continuassero
la
loro
opera;
essere
testimoni
del
loro
sacrificio
per
redimerlo
affinché
esso
non
sia
stato
compiuto
invano.
I
vivi
lo
devono
testimoniare.
Tuttavia
spesso
le
ingiustizie,
il
terrore,
i
drammi
creano
talmente
tanto
di
quell'odio
che
chi
raccoglie
il
testimone
viene
posseduto
dalla
vendetta
e
vive
con
questo
scopo:
giusto
o
sbagliato che sia. È così che si generano le faide tribali, l'odio etnico e si perpetua la guerra tra le famiglie e i popoli.
Mauro
aveva
ottenuto
quell'incontro
audio
per
vie
traverse
indicibili;
le
fonti
devono
restare
sempre
anonime,
recita
il
primo
principio
del
giornalismo.
Abed
dopo
aver
tentennato
parecchio
e
vagliate
le
conseguenze
aveva
accettato
di
dire
la
sua
con
tutte
le
cautele
del
caso.
Ed
era
un
fiume in piena di parole, a partire dall'operazione “Piombo Fuso” del 2008 per non risalire al 1948.
“Il
paesaggio
intorno
a
me
non
mi
sembrava
vero,
mi
giravo
e
rigiravo
per
averne
piena
contezza
e
pensavo
d'essere
dentro
un
film
di
fantascienza.
Cercavo
in
tutti
i
modi
di
tornare
alla
realtà
ma
non
ci
potevo
credere.
Realtà
postatomica:
sublime
devastazione
da
percezione
subliminale,
macerie,
sangue,
morti
e
polvere.
Scene
di
quelle
che
neanche
in
televisione
vorresti
vedere
e
io
le
toccavo
con
mano,
le
vedevo
dal
vivo.
Ero
vivo?
Mi
sembrava
d'essere
in
un
altro
mondo,
nell'oltretomba.
M'avevano
appena
estratto
da
sotto
le
macerie,
tirato
fuori
dalla
tomba”.
Quando
si
guardano
queste
scene
in
televisione
ci
si
commuove
e
si
piange.
Atrocità
reali
non
film
distopici
horror.
Reale
realtà
sovradeterminata,
irrazionale.
“Mi
tirarono
fuori
vivo
per
miracolo,
ma
non
era
un
miracolo.
Era
la
mano
dell'uomo
altroché
miracolo,
i
miracoli
non
esistono.
Non
c'è
nulla
da
disquisire
sopra
i
miracoli,
sulla
mano
dell'uomo
sì,
molto.
Anche
se
tanti
non
ci
credono
e
fanno
gli
struzzi,
si
arrampicano
sugli
specchi
per
trovare una minima catarsi giustificativa, apologo sub iudice di discolpa”.
Corpi
straziati
intorno
a
me.
Corpi
martoriati
vagavano
come
ombre
fugaci
alla
ricerca
del
senno
perso,
qualche
straccio
qualche
brandello
una
pentola
perforata,
una
coperta
sfrangiata.
Dissennate
mani
sul
grilletto
con
tute
da
robocop
indossate
sventagliavano
proiettili
a
bizzeffe
su
chi
raccattava miseri resti da riciclare per un presente ignobile da affrontare.
“Una
forchetta
ricurva
gli
sembrò
un'arma
micidiale
e
subito
sparò
per
rendere
innocuo
il
ragazzino
che
la
teneva
in
mano:
robocop
col
grilletto
facile”. Si sparava anche alle pecore per non dare da mangiare ai bombardati.
“Vidi
il
ragazzino
traballare,
accasciarsi
e
rialzarsi
che
alla
morte
non
si
voleva
rassegnare”.
La
madre
con
le
mani
al
cielo
si
disperava
e
io
singhiozzavo. “Mi porsero una bottiglia impolverata con un fondo d'acqua per ripulire la gola dalla polvere incrostata”.
Più in là un carrozzone si strascicava per la strada con alcuni morti sopra ricoperti con la bandiera Palestinese”.
Non
c'era
più
pietà.
Era
morta
e
sepolta
anch'essa
trucidata
dalla
mano
dei
politici
in
auge
puliti
col
doppiopetto
del
popolo
eletto/negletto.
Demoni
incarnati,
esodati
paralizzati
di
fronte
al
roveto
ardente
che
si
beano
dell'ipertrofica
tronfia
elezione
supereroi
da
sentirsi
i
migliori
al
mondo; visione sionista-fascista. Visione daltonica!
“Dire
“atrocità
inaudite”
è
un
eufemismo
plaudente,
un
encomio
assolvente.
I
potenti
se
ne
stanno
a
guardare
e
lasciano
fare
all'avamposto
dell'impero.
Per
reconditi
motivi
all'ONU
non
mettono
il
veto,
nel
senso
che
i
motivi
si
sanno
benissimo,
ma
sono
reconditi
in
quanto
deplorevoli
e
grevi”.
In
mezzo
a
questo
paesaggio
lunare
non
mi
ritrovavo,
avevo
perso
ogni
lucida
cognizione
reale.
Ero
lì.
Tanti
visi
lerci
anneriti
a
mani
nude
scavavano in cerca di cadaveri.
“E
cosa
volete
trovare?
Qui
anche
i
vivi
sono
morti!”.
Diceva
una
voce
fuori
campo.
Parenti
e
amici,
grandi
e
piccoli
scavavano
mentre
una
torcia
illuminava le tenebre. Era tutto così tenebroso che il cielo non si vedeva sebbene fosse pieno giorno.
“Un
signore
che
non
riconoscevo
come
mio
padre
faceva
leva
con
una
stanga
a
sollevare
una
trave,
fare
un
pertugio
per
andare
in
giù
nel
palazzo
ridotto
ad
un
cumulo
di
detriti.
Un
altro
che
non
riconoscevo
fosse
mio
zio
si
disperava
che
li
sotto
c'era
sua
moglie
e
sua
figlia
di
sette
anni,
la
mia
cuginetta con la quale giocavo a tre sette e disegnavo sulle carte...”.
Lo
chiamarono
alla
ricetrasmittente
e
si
allontanò
di
corsa.
Mauro
restò
nell'ospedale
da
campo
di
MSF,
dov'era
ospite,
con
l'attendente-
traduttore
che
gli
descriveva
la
situazione
nel
reticolo
dei
tunnel,
di
come
li
avevano
scavati
e
come
li
gestivano
a
compartimenti
stagni.
Dopo
quasi un'ora Abed tornò al microfono, accalorato ma rilassato. Riprese il racconto.
“Mio
nonno
furtivo
era
entrato
dopo
le
prime
bombe
per
svegliarci
e
farci
uscire,
stava
prendendo
un
cappotto
per
ripararsi
dal
freddo
e
rimase
intrappolato
come
un
dannato
alla
Cayenna.
Stava
aprendo
l'armadio
e
tutto
crollò
in
un'istante,
un
colpo
sordo,
un
tonfo
sordido
e
la
deflagrazione
fece
il
suo
effetto
orbo”.
Schegge
rimbombanti
impazzavano
mentre
l'edificio
s'afflosciava
sotto
una
nube
di
polvere
che
s'ergeva
al
cielo, inalberandosi come un fungo. La chioma era grigia e densa, occludente le vie respiratorie a chi ci capitava in mezzo.
“I
suoi
occhi
prima
che
si
chiudessero
per
sempre
mi
hanno
lasciato
in
eredità
la
vendetta.
Era
un
nullatenente
spossessato
dai
Farisei
della
sua
atavica terra a favore dei coloni. Ingordigia senza resto”. Confidò Abed biascicando le parole.
Fece un respiro profondo, si schiarì la gola con un sorso ormai freddo di tè e riprese nel racconto.
“La
guerra
lascia
in
eredità
la
vendetta,
la
legge
del
taglione
e
ineluttabilmente
ci
sarà
qualcuno
che
prenderà-riceverà
il
testimone.
Mia
madre
seduta
su
un
blocco
di
cemento
col
ferro
contorto
piangeva
a
dirotto
come
se
nevicasse;
di
mia
nonna
non
se
ne
sapeva
niente.
Se
ne
stava
con
la
testa
tra
le
mani
e
tirava
in
su
con
il
naso,
fece
un
sorriso
amaro
misto
a
lacrime
di
felicità
allorquando
vide
la
mia
mano
uscire
dall'anfratto
innaturale. E in arabo di gioia gridava, in inglese gridava maledizioni a tutto spiano con incurabili mani al cielo sollevate”.
Cantava
la
zaghroutah
di
vendetta
e
con
tutto
il
cuore
la
invocava.
Il
cuore
divenne
un
coro,
e
tutti
i
presenti
lì
intorno
si
accodarono.
“Che
colpa
ne ho se sono cresciuto nell'odio? Io non voglio odiare mi hanno fatto odiare con l'orrore subito dal mio popolo, dalla mia terra. È colpa mia? No!”.
Chiese
e
rispose
retoricamente
Abed
a
se
stesso
più
che
a
Mauro.
Vivendo
all'inferno
non
si
crea
altro
che
risentimento,
ci
si
impregna
d'odio
come lo iodio, imbevuti gialli di bile verso gli estorsori delle terre altrui.
“Vogliono
estirpare
Hamas
ma
si
fanno
i
conti
senza
l'oste.
Ci
possono
uccidere
tutti,
ma
sono
già
pronti
coloro
che
raccoglieranno
il
testimone.
Tra
dieci
anni
saranno
punto
e
a
capo.
La
Palestina
è
immortale,
anche
se
occuperanno
tutto
il
territorio
vivrà
in
eterno.
Possono
avere
tutte
le
armi
migliori,
ma
non
potranno
mai
sottomettere
un
intero
popolo.
Netanyau
l'ha
presa
come
un
affronto
personale
al
suo
onore,
non
ci
dorme
la
notte
e
ha
sete
di
vendetta.
Deve
lavare
l'onta
sulla
sua
carriera
politica.
Resterà
questo
nei
libri
di
storia.
Giudicato
come
Hitler”.
Abed
si
lasciò
andare
a
sfogare
una
ramanzina
sulla
“Terra
promessa”
declamata
come
l'ombelico
del
mondo
mentre
a
lui
sembrava
ridotta
più
che
altro
il
buco
del
culo
del
mondo.
E
il
condottiero
novello
David
ammorbato,
come
un
tamarro
circondato
da
maranza,
della
sindrome
terapeutica
negativa:
meglio
malato
che
cadere
guarito.
Il
tamarro
non
ha
sensi
di
colpa,
ha
solo
impulsi
coattivi.
È
uno
che
non
riesce
a
verificare
se
si
trova
nel
mondo
comune o d'essere quello dello specchio.
Mauro
aveva
bisogno
di
testimonianze
autentiche,
informazioni
pulite
e
non
le
solite
cose
da
cani
da
guardia.
Tutta
l'informazione
che
usciva
da
Gaza
era
embedded
al
seguito
dell'esercito
di
Tel
Aviv
che
faceva
vedere
quello
che
gli
faceva
comodo
a
discapito
della
verità,
la
quale
risultava
parziale
e
teleguidata.
A
Mauro
ciò
non
lo
soddisfaceva
affatto
essendo
lui
ligio
ai
principi
irreprensibili,
scritti
sulla
pietra,
del
giornalismo
autentico.
Abed
si
muove
tra
le
ombre
silenziose
di
Gaza
city,
i
revenants
rimasti
a
presidiare
e
testimoniare
l'indecenza
israeliana.
Le
scansa
e
si
meraviglia
che
nessuno
l'abbia
contattato
come
testimone
del
paesaggio
mortuario.
Si
meraviglia
che
nessuno
cerca
la
verità
e
tutti
si
accontentano
degli
embedded
disinformati.
Di
quelli
a
cui
fanno
fare
i
tour
turistici
giornalistici.
Eppure
i
contatti
arabi
o
occidentali
che
Abed
ha
lo
sanno
che
lui
è
lì
nel
sottosuolo
sotto
i
raid
pronto
a
vuotare
il
sacco.
Solo
qualche
testata
araba
ha
fatto
alzare
la
sua
voce
dal
sottosuolo
dove
si
protegge
dalle
bombe.
Per
Mauro
ci
voleva
una
seduta
medium
per
contattarlo
e
sentire
la
testimonianza
di
Abed.
Era
difficile
da
raggiungere
in
quelle
catacombe
di
Gaza
city
dove
si
aggirava
con
una
radio
a
bassa
frequenza
per
non
essere
geolocalizzato.
La
notte
usciva
l'antenna
e
si
connetteva
con
un
cellulare tra i profughi scacciati verso Rafah.
Mauro
doveva
verificare
una
fonte
che
gli
era
stata
trapelata
dal
suo
informatore
alla
Casa
Bianca.
Fonte
sicura
ma
ci
voleva
la
conferma
sul
campo. Il file vocale riportava una conversazione tra Netanyau e Biden, o meglio tra il loro sherpa, alter ego, più vicini.
“Non arrischiatevi a far passare la mozione al Consiglio di Sicurezza. Dovete mettere il veto”. Sosteneva l'israeliano.
“Siamo sicuri che poi non attaccate Rafah? Perché nostre fonti dicono che volete arrivare in Egitto”. Bofonchiava l'americano.
“Ti do la parola d'onore di Netanyau che non colpiremo i civili”. Replicò l'israeliano con tono categorico.
L'impero
pensava
di
controllare
la
periferia,
l'avamposto
antimusulmano,
senza
perderci
la
faccia
che
già
tanti
guai
aveva
combinato
adducendo
la
mera
scusa
del
terrorismo.
Contenerlo
per
non
mettersi
contro
l'opinione
mondiale.
Avevano
già
messo
tre
veti
e
il
quarto
era
un'esagerazione.
Poteva sembrare che la lobby interna ebraica condizionasse le decisioni del Presidente, ed in tempo di elezione non era facile barcamenarsi.
“Tranquillo
Sam
tuo
nipote
Ben
non
ti
tradirà
mai”.
Disse
con
tono
convincente
l'israeliano.
“Siamo
il
tuo
avamposto,
non
lo
dimenticare”.
Lo
rassicurò, aggiungendo: “In una regione che fibrilla di arabi con la testa malata”.
“Attenti
che
state
oltrepassando
il
limite.
Se
il
conflitto
s'allarga
non
vi
possiamo
aiutare.
E
con
le
vostre
forze
non
ce
la
potete
fare.
Metteremo
il
veto
ma
datevi
una
calmata.
Rendetevi
conto
che
state
perdendo
consenso
al
livello
mondiale”.
Lo
mise
in
guardia
l'americano
non
tenendo
conto
che di Giuda non ci si può allegramente fidare. La solita solfa, siamo degli asini a cui la storia non insegna niente.
“Se
non
rispettate
gli
impegni
presi
e
ci
prendete
per
i
fondelli
la
nostra
pazienza
ha
un
limite”.
L'assicurazione
dell'amico
alter
ego
di
Netanyau
non
lo
convinceva,
eppure
si
doveva
fidare.
Infatti
il
giorno
dopo
il
veto
all'ONU
gli
israeliani
ripresero
a
marciare
con
raid
su
ospedali
e
moschee
cacciando
via
la
popolazione
verso
il
mare
per
farli
affogare.
Fu
così
che
passò
alla
storia
come
una
remota
provincia
prese
per
il
culo
il
centro
dell'impero. L'eccesso di presunzione è un peccato mortale, l'impero con tutti i pensieri che aveva accusò il colpo e andò in fibrillazione.
Quel
file
vocale
era
una
bomba
perché
sputtanava
l'ignominiosa
condotta
in
questa
guerra
degli
Stati
Uniti.
Eppure
l'opinione
pubblica
in
parte
era pure filoisraeliana ad oltranza giustificando e rendendosi complice del massacro, del genocidio in atto.
Per
motivi
di
sicurezza
Abed
doveva
chiudere
la
conversazione.
“Caro
Mauro
qui
siamo
tutti
terrorizzati,
non
solo
i
bambini
e
le
donne,
ma
anche
i
grandi
e
i
vecchi.
Il
terrore
misto
a
rabbia
si
legge
nei
volti
di
tutti.
È
un
terrore
che
si
esprime
in
rancore
e
odio.
Essi
raccoglieranno
il
testimone,
saranno
la
staffetta
dei
morti
e
in
un
prossimo
futuro
li
vendicheranno.
La
Palestina
immortale.
Non
si
può
cancellare
dalla
faccia
della
terra
un
popolo,
una
nazione,
neanche
Hitler
c'è
riuscito”.
E
mise
giù
il
microfono.
L'immortalità
dell'uomo
consiste
nel
fatto
che
qualcun
altro,
figlia
o
figlio,
nipote
o
cugino
raccoglie
il
testimone
e
continui
l'opera
del
defunto.
Lo
stesso
avviene
per
un
popolo
o
etnia.
La
riproduzione
ha
questo
fine:
impedire l'estinzione. Evitare che i progetti avviati restino a metà: non conclusi, stroncati.
Rosella Rogora
Poesia
Opera in Concorso
Il Nulla
Laggiù dove finisce il mare
l’immenso
si staglia prepotente
in uno sfondo tinto di nero
solo il pensiero
illumina le menti sagge
pronti a comprendere
il nulla.
Dove finisce
l’immenso
vive qualcosa
di impenetrabile e divino
dove l’anima
respira
abbandonata
in un abbraccio sovrumano
cos’è il nulla
un abbraccio
di tutto e di niente
un respiro agognato
su labbra gelide
che sussurrano.
il nulla è niente di niente
è di tutto e di tutti.
Frammenti
Frammenti
di giochi in campi di grano
di grandi risate
di grida spensierate.
Frammenti
di profumi
di sapori
di tavole imbandite.
Frammenti
spezzati
di anni che scorrono via
lasciando
uno strascico
nostalgico.
Frammenti
d’amori
perduti
e ritrovati.
Frammenti
di noi
che viviamo
il giorno e la notte
perché la vita
è un piccolo e fragile
frammento
di stelle cadenti.
Profumo di madre
Il profumo
della tua pelle
mi rincuora.
Come bimba
nel tuo grembo
mi rifugio.
Profumo di madre
mi riveste
come abito d’amore.
Il richiamo è forte
e placa le mie anse
riconducendomi
laddove le tue braccia
mi stringevano al cuore.
Quel profumo è dentro di me
come anima
che si strugge
d’amore.
Rosella Rogora
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Gianfranco Tamagnini
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Marco Cesare Mariani
Poesie
Opera in Concorso
Raggio
Un raggio di luce si infila tenue nell’antica oscurità di un pozzo
Sguardi pigri, ignari, si destano da uno sconosciuto sonno
…Si sveglia la notte, stordita da un raggio di luce.
Addio
Addio anni in cui dolce era l’odore dell’inchiostro sparso sui rigoni del foglio
Addio tiglio, odore pungente che abbracciavi la polvere umida orfana di pioggia
Addio strada lunga che misuravo con i miei allegri piccoli passi
Addio volti, odori, che riempivano i miei primi ampi sguardi
Addio volti che siete stati ore delle mie prime giornate
Voci, sguardi, sorrisi sinceri
Addio anni giovanili
Gli unici immortali
Alzhaimer
Ti sento fetore al vento, pezzo di un escremento ormai stanco
Ti sento netto come vedevo il tetto della mia casa un tempo bianco
Ti sento anche da lontano con questa tua scia acquosa ed odorosa
Tuo sollazzo stupito di donna in una giornata afosa
Va dolce letame anticipo del mio giorno fatale
Ormai la tua mente sfatta vive una solitudine carnale
Amo…
Non sono una cima d'altezza o una grande spugnosa testa
Amo la compagnia, i sorrisi, l'allegria dei giovani migranti in festa
Amo la parola, lo sguardo di chi soffre perché sa che poco gli resta
Amo chi aiuta, chi ha avuto poco e di questo poco non protesta
Amo il talento nascosto, diverso che ognuno ha, quando è umile e senza cresta
Amo la gente che ama e si dona senza mai fermarsi o sentirsi mesta
Amo te, figlio mio, mia energia, mia vita, prima della lunga, comune siesta
Maria Grazia Butti
Poesie
Opera in Concorso
L’oggetto
Nel buio del canto
ove un dì ti posero
stai celato e muto
carico di segreti
ad alcuno mai svelati.
Compari improvviso
arretri la mente
fermi l’attimo,
ravvisi immagini
svuotate dal tempo.
Scampato alla vita
arrivi dallo spazio,
precipiti nel presente
incolume,
privo d'ogni ferita.
Tacito,
nella tua immobilità,
vivi l’eternità.
Nasce un’idea
Esile s’infila un bagliore
tra le buie pieghe della mente.
Vaga nei meandri oscuri,
abbatte ostacoli e si frange.
Riprende vigore
avanza prepotente
raccoglie nuova energia
si gonfia come vela al vento
e impetuoso si espande
tra coriandoli di luce.
Parole di ghiaccio
Parole di ghiaccio
tagliano quei silenzi.
Brillano fugaci nel vuoto
per colpire il bersaglio.
Sibila nell’aria muta
un lungo lamento.
Perenni cerchi umidi
compaiono sulla terra
arida.
Quasi un’invenzione
A te che nel cuore mi respiri
e scaldi le mie mani.
A te
che mi attraversi le vene
e mi inondi la mente.
A te
che le tenebre dissolvi
\
e accendi luna al mattino.
A te
che mi tieni al laccio
e mi lasci volteggiare.
A te
che, soffio di brezza,
attenui le cicatrici.
A te mi dedico
nell'infinito di questa stanza.
Lucia Nazzaro
Breve racconto
Opera in Concorso
A proposito di un pasto mai consumato da un agnello
Quel
mattino
le
aveva
tagliato
le
unghie
dei
piedi
e
mentre
rigirava
le
mobili
dita
fra
le
sue
mani,
l’allora
bambina,
si
accorse
di
quanto
era
buffa,
di
quanto
era
grassa,
di
quanto
ridesse
male
e
a
sproposito.
Sua
madre.
Rideva
delle
sue
dita
molli
che
si
adattavano
volentieri
al
suo
ridicolo
gioco.
Che
facesse
in
fretta
a
coprirli
con
i
calzini
(quelli
più
nuovi,
più
bianchi),
con
le
scarpe
che
sicuramente,
avrebbero
avuto
ancora
l’odore
del
bianchetto
con
il
quale
le
ave
dipinte,
perché
lei
fosse
stata
più
credibile
nel
momento
in
cui
avrebbe
sostenuto
la
parte
di
chi
aveva
fatto
la
prima
comunione…
Se
fosse
stata
adulta
l’avrebbe
trovata
solo
patetica
e
magari
avrebbe
riso
con
lei
per
farla
felice
ma,
non
lo
era
e
quel
gioco
metteva
troppo
in
evidenza
quei
grandi
piedi
di
cui
provava
vergogna.
Le
sue
sorelle
(non
certo
mosse
da
spirito
consolatorio),
dicevano
che
sarebbe
diventata
molto
alta.
La
più
alta
di
tutte
(per
via
di
quei
grandi
piedi).
Ma,
a
prescindere
dalle
loro
intenzioni,
quel
motivo
non
la
consolava.
Era
come
se
presagisse
che
quei
piedi,
li
avrebbe
sempre
visti
ingombranti.
Non
adeguati
alla
sua
figura
che,
di
fatto,
smise
di
crescere
prima
dei
piedi.
Non diventò molto alta. Solo un pochino di più delle sue sorelle. Non poteva bastare a colmare differenze…
Quando,
quel
mattino,
si
trovò
sui
banchi
di
scuola,
non
poteva
fare
a
meno
di
guardarli,
anche
perché
l’aspettava
un
recita
che
non
le
avrebbe
fatto
onore.
A
scuola
le
parlavano
di
“fioretti”
di
un
Gesù
bambino
che
avrebbe
voluto
come
amico…Doveva
invece
mentire.
Non
era
il
modo
giusto
di
avvicinarlo.
Come
avrebbe
fatto
a
recitare
la
preghierina,
prima
di
coricarsi?
Era
così
piccola,
povera
cocca!
Non
sapeva
ancora
urlare:
”Ipocrita!”.
A
sua
madre.
Sì,
proprio
a
sua
madre.
Non
riusciva
neanche
a
guardarla
ma,
quel
mattino,
non
desiderava
particolarmente
essere
sui
banchi
di
scuola
e,
quindi
la
scrutò
un
momento,
come
in
attesa.
Forse
voleva
rapire
quel
momento
di
riflessione
che,
lo
sapeva,
non
ci
sarebbe
mai
stato. Era una donna così priva di benevolenza!
Aveva
una
scorza
dura
ma,
come
armatura
priva
di
punte
acuminate,
poteva
ingannare
ed
essere
scambiata
per
dolcezza,
la
sua
pasta
molle.
Rivestiva
le
sue
grosse
ossa,
dure
come
marmo
e
come
ghiaccio
che
ripara
nell’ombra
per
non
spiegare
al
sole
la
sua
reale
consistenza.
Quell’acqua
che
le
inondava
il
volto
quando
piangeva.
Piangeva
sempre
e
rideva,
anche,
di
chi
l’aveva
fatta
piangere.
Puntava
il
dito
contro
di
lui
che
l’amava
tanto.
Si
era
sempre
chiesta
come
potesse
avvicinarla
e
chiudersi
con
lei
poi…in
quella
stanza.
E
il
tempo
sarebbe
diventato
infinito
prima
che
quella
porta
si
aprisse
alle
sue
domande,
alla
sua
paura
e
non
l’avrebbe
percepito
poi
così
lungo
non
appena
avesse
sentito
su
di
sé
quella
nube
calda,
densa
di
lacrime
maleodoranti.
Di
lì
a
poco
l’avrebbe
vista
in
cucina,
preparare
la
merenda
per
lei,
per
le
sue
sorelle
e
tutte,
in
silenzio,
avrebbero consumato il disgusto e il mistero della loro nascita.
Figlia del disgusto
impronta del demonio
Annichilisco
Come fosse vero che Dio ricalca passaggi di stelle, infuocate dallo stesso ceppo.
Del
resto,
di
quel
cibo
strappato
alle
lacrime
non
ne
avevano
proprio
bisogno.
L’altro,
quello
che
nutre
anche
lo
spirito,
l’avrebbero
cercato
tutta
la
vita.
Anche
quando
lei,
abbandonato
ogni
pudore,
lanciava
sfide
alla
lascivia
dopo
aver
comunicato
che
doveva
“evolversi”,
andare
verso
una
vita
libera,
verso
il
primo
amore.
E
non
si
sarebbe
stancata
di
cercarlo.
Il
primo,
l’ultimo,
che
importanza
poteva
avere,
sapeva
di
mentire,
non
ci
sarebbe
mai
stato.
Non
era
di
questa
terra,
la
cosa
che
stava
cercando
con
l’appetito
che
riservava
al
suo
piatto
preferito.
Pasta
e
ricotta,
anzi,
pastina.
Le
veniva
da
vomitare,
mentre
pensava
alle
sue
labbra
sporche
(da
adulta
avrebbe
capito
perché
e
avrebbe
diluito
nell’alcool
il
disgusto
della
stessa
brama),
alla
sua
ingordigia,
pari
solo
a
quella
della
bambina
che,
intanto
cresceva…
all’ombra
della
sua
stessa
specie,
quella
dell’animale
che
aspira
spiritualità
mentre
mastica
sapore
della
stessa
carne.
Ma,
di
questo,
lei,
la
madre,
non
era
consapevole.
Almeno
d
i
questo.
Si
dichiarava
innocente
come
Maria
(la
Vergine)
e
forse
lo
era.
Non
lo
era
quella
parola,
ormai
adulta,
che
scioglieva
nell’acido,
quelle
stille
di
malaugurata
sapienza.
Sì,
l’amore,
soprattutto
non
era
suo.
Di
lei,
la
madre.
Era
di
quella
parola
che
attentava
all’orrore
mentre
cercava
verità,
nascoste
anche
all’Assoluto
e
rischiava
di
perdere,
i
n
quella
sfida
il
molteplice…
avvicendarsi
di
figure,
trasfigurate
proprio
dalle
capziose
torture
della
sua
parola.
Quella,
attentava
l’ordine
naturale
delle
cose
e
le
era
antipatica
non
meno
della
madre
che
in
fondo,
faceva
la
stessa
operazione:
ingoiava
bocconi
di
sana
natura
animale
per
sputarne,
subito
dopo,
la
vera
sostanza.
La
sua
dentatura
corrotta
non
scioglieva
le
fibre
e
rimandava
al
fiele
il
compito
di
distruggerne
la
consistenza.
Perché,
per
lei,
era
soprattutto
importante
il
succo
che
poteva
trarne,
Quel
sapore
dolciastro
che
spingeva
dentro
come
a
rafforzare
la
sua
natura,
già
troppo
compromessa
dal
suo
stesso
sangue.
Edera
dolore,
vederla
così
e
nausea
fino
allo
spasmo.
Ma
lei
non
si
avvedeva
di
nulla,
mentre
imboccava
vie
che
di
assurdo
avevano
solo
la
sua
del
tutto
naturale
propensione
a
iniettare
il
veleno
della
discordia
laddove,
a
sua
insaputa,
cresceva
amore.
Chissà
cosa
la
rendeva
così
riluttante,
così
“schifata”
al
solo
pronunciarsi
della
parola,
cosa
le
si
muoveva
dentro
in
quel
passaggio
fra
parola
e
gesto
che
la
stessa
evoca.
Non
certo
la
bellezza
di
una
natività…
piuttosto,
veniva
da
pensare,
a
quell’attentato
alla
sua
purezza
che
era
parte
costituente
la
sua
sacra
famiglia…
quel
“ti
amo”,
anche,
che
la
incriminò,
pare
a
sua
insaputa, donna e madre, anche… Quale la sua colpa (?), per cotanto scempio…
Incredula
si
aggirava
fra
le
sue
figlie
e,
sempre
più
incredula,
partecipava
ai
funerali
degli
unici
due
maschi.
Nessun
dolore.
Solo
quell’acqua
salata
he
le
irrigava
il
volto,
che
sottolineava
i
lineamenti,
già
consegnati
al
tempo
di
allora.
Sembrava
che
la
morte
non
la
riguardasse
e
anche
oggi
che
si
supponeva,
non
le
fosse
molto
lontana,
nicchiava
oltre
cent’anni…
Infatti,
non
era
possibile
che
morisse.
Era
troppo
scaltra
per
non
ammansire
anche
quella,
per
non
deludere
anche
quelli
che
l’avevano
sognata
per
lei,
per
sfinire
sul
bordo
dell’umanità.
E
anche
lei,
la
figlia,
in
fondo,
osava
pensarla
così,
sempre
viva.
Con
i
panni
stesi
al
vento
e
con
la
sua
voce
che
cantava
motivi
d’altri
tempi
e
osava,
anche,
sfidare,
fino
all’ultima
canzone,
una
possibilità,
qualche
volta
vagheggiata.
Come
quella
volta
che
aveva
interrotto
una
lezione
di
Storia
dell’Arte
perché
fosse
fatta
giustizia,
che
restituissero,
alla
sua
bambina,
il
libro
di
chimica!
E
l’altra,
quella
in
cui
la
vide
andarle
incontro
trafelata,
come
intimidita.
Stava
per
darle
il
libro
di
anatomia
che
lei
non
aveva
potuto
comprarsi,
con
queste
parole:
“Era
questo
che
volevi?...”
E
lei
scoprì
l’altra
faccia
della
vergogna.
In
quel
la
via,
quella
piccola,
goffa
donna,
le
consegnava
qualcosa
di
grande.
Qualcosa
a
cui
non
sapeva
dare
un
nome
ma,
forse
era
amore.
La
stessa
donna
che
qualche
tempo
prima,
l’aveva
messa
in
ridicolo.
Per
lo
stesso
principio,
forse.
Due
“precedenti”
diversi
per
lo
stesso
rimorso.
Quello, indulgeva sulla sua parola, stanca, stancante… Non era chiaro, infatti, cosa la spingesse a scrivere, anche di lei.
Non
aveva
un
buon
odore,
almeno
non
era
quello
del
suo
bucato
steso
al
sole.
Non
ne
era
consapevole
e
strappava
i
suoi
baci,
i
suoi
abbracci.
E
lei
non aveva scappatoie e sfiniva, fra le sue grosse braccia, il desiderio di un disinfettante. Fosse stata meno presente, forse l’avrebbe amata.
Mentre
così
scriveva,
la
pensò
in
quella
sua
ultima
scena.
Quella
Casa
di
riposo
che,
oggi,
raccoglieva
le
sue
braccia
ormai
smunte.
E
stupiva
del
sua
presenza
flaccida
eppure
sempre
più
ingombrante.
Pensava
che
di
questo,
erano
responsabili
le
sue
sorelle
che
l’amavano
tanto.
Che
l’abbracciassero
allora,
che
la
stringessero,
che
non
le
facessero
mancare
l’aria
e
i
piatti
che
amava
tanto…
Perché,
proprio
lei,
era
“del
suo
cuore”?…
…
Mentre
così
scriveva,
lo
sentì
battere
più
forte,
come
un
sussulto.
Poi
uno
strano
silenzio
la
coprì
alle
spalle.
Come
un
paradosso.
Non
mai
troppo lontano dalla verità. Il gelo voleva sciogliersi in lacrime ma, ancora una volta, trionfò qualcos’atro. La scrittura abbandonò la sua arma.
10 Marzo 2021 Lucia Nazzaro
Disarmata.
Sì,
era
proprio
così
che
si
sentiva
mentre
il
cuore
l’avvertiva
di
un
battito,
tutto
nuovo.
Amore,
pietas…
Che
importanza
poteva
avere
ormai.
La
parola
era
stata
scritta.
Vinta
dal
rimorso,
avrebbe
potuto
strapparla,
quella
pagina.
Nessuno
l’avrebbe
reclamata
perché,
lei,
non
era
nessuno.
Almeno,
non
ancora.
Forse,
in
quello
scorcio
di
vita,
poteva
scrivere
ancora
la
parola
giusta.
E
forse,
era
proprio
quella
che
aveva
appena
letto.
Per
questo
motivo
non
poteva
distruggerla.
Forse.
E
perché
poi?
Non
avrebbe
impedito
nulla.
La
morte
era
già
lì,
pronta
all’uso…Un’
occasione
per
esibire
lacrime.
Probabilmente
ne
avrebbe
approfittato
anche
lei.
Le
sentiva
già
prossime
a
versarsi
sul
suo
volto
e
sarebbero
state
proprio
come
quelle
di
sua
madre.
Ne
era
certa.
Una
contrazione
distratta
delle
palpebre.
Quelle
di
sempre
erano
così.
Non
quelle
di
questi
ultimi
suoi
giorni.
Queste,
non
sono
originate
da
nessun
movimento.
Ben
ferme
sullo
sguardo
non
accennano
a
sciogliersi,
a
irrorare
quel
volto,
ché
pure
oggi
ne
avrebbe
veramente
bisogno
Sono
mute,
sono
sorde,
sono
puro
dolore
e
il
suo
spaesamento.
Perché,
il
dolore,
quando
non
è
corrotto
regala solo alla meraviglia la sua verità.
Era
bella.
La
morte
le
si
addiceva.
Era
come
un
gioco
bizzarro
della
vita.
Le
sue
mani
si
muovevano
intorno
alla
sua
figura
come
a
simulare
una
danza,
sembrava
cercassero
il
volto
come
per
sfiorarlo
o
per
assicurarsi
che
c’era
ancora.
Di
fatto
era
rimasto
ben
poco
della
sua
fisicità.
Quella
fisicità
che
aveva
dato
tanto
fastidio,
non
faceva
più
rumore.
Il
silenzio
l’aveva
attraversata,
aveva
tolto
ogni
ingombrante
fardello.
L’aveva
come
svuotata,
lavata.
In
poco
tempo
la
mano
di
un
dio,
scultore
forse,
aveva
con
il
più
piccolo
scalpello
modellato
le
vene
a
tal
punto
da
far
intuire
lo
scorrere
di
quel
sangue
così
impoverito.
Si
aspettava
di
vederle
pulsare,
urlare
ancora
brama
di
vita
ma
tutto,
ormai,
era
fermo
intorno
a
lei
che,
paziente come la morte, non voleva ancora consegnarla al suo principio e chiedeva alla voce di cantare quella vecchia canzone: “Volareeeeee…..
30 Marzo 2022
Ma,
quella
vecchia
vita,
non
voleva
proprio
lasciarla.
Le
si
era
appoggiata
addosso
come
un
abito
ingiallito
dal
disuso
ma,
come
abito
indossato
fino
all’accanimento,
rivelava
della
sua
impronta.
C’era
tutto
della
sua
precedente
forma.
Tutto,
meno
il
colore
che
si
ostinavano
a
metterle
addosso…come forma di risarcimento di quello che le avevano tolto…forse. Forse, come fosse già morta, la vestivano del loro rimorso…
“Io
sono
il
vento…”
Altra
vecchia
canzone
che,
fino
a
qualche
giorno
prima
aveva
cantato.
Datele
l’aria,
per
Dio!
L’acqua
del
mare…che
possa
annegarci
dentro!
Così,
come
desidera.
Forse
non
più.
E’
di
oggi,
l’accettazione
e
una
strana
umiltà.
Come
avesse
già
dialogato
con
la
morte
e
ne
fosse
uscita
con
qualche
garanzia.
Che
importanza
può
avere
la
morte
se
è
già
tutto
finito?
E’
solo
una
formalità
e
per
noi
che
stiamo
a
guardare,
un sollievo. Forse
Eppure
qualcosa
si
muove,
in
quello
sguardo.
Qualcosa
che
ha
a
che
fare
con
l’immortalità
come
fosse,
questa,
un’indolenza
della
vita.
Potessero,
queste pigre parole, portarla all’altare, come sposa della bellezza. Potessi riscattare parole come amore, giustizia, fede…
Taccio, non voglio carpire il suo segreto.
25 giugno 2022 Lucia Nazzaro
Quel
pomeriggio
aveva
pregato
la
morte
di
ricordarsi
di
lei.
Meglio,
di
quel
poco
che
rimaneva
di
quel
paradosso
che
era
stata
la
sua
vita.
Una
scappatoia
per
i
sensi.
Quegli
stessi
che
l’avevano
obbligata
a
procreare,
nonostante
se
stessa
e
la
sua
voglia
di
viverli
senza
che
questi
avessero
a
che
fare
con
la
sua
fertile
natura…e
paradossalmente,
anche
oggi
che
della
vita
aveva
perso
ogni
orientamento,
quella
lista
di
nomi
che
erano
le
sue
figlie
(aveva
avuto
anche
dei
maschi
ma
non
erano
più),
la
ricongiungevano
al
senso
della
vita.
Quale?
Non
è
dato
sapere.
E’
un
fatto
che
quel
senso,
non
le
faceva
prendere
la
direzione
della
morte
o,
semplicemente,
la
morte
l’aveva
dimenticata.
Come
si
dimentica
volentieri
un
fardello
pesante.
A
sua
volta
madre,
aveva
raccolto
questa
intuizione
del
figlio.
L’aveva
trovata
semplicemente
grande.
Spiegava
in
qualche
modo,
seppure
in
chiave
pericolosamente
allegorica,
ciò
che
non
poteva
più
riferire
di
una
forma
di
accanimento
nei
confronti
della
vita.
Suo
figlio
aveva
anche
detto
che
la
morte
è
anche
un
po’
pasticciona…come
dire
che
prende
per
caso
e
che
fa
confusione,
a
volte.
Non
ha,
insomma,
un
suo
registro
preciso.
Perché
dovrebbe averlo, poi? Sarebbe affermare che c’è un disegno…e quant’altro.
Per
chi
batteva
quel
cuore?
Quel
corpo
non
era
più.
Quelle
vene
massacrate,
non
sembravano
raccogliere
nessun
fluire
di
sangue.
Cosa
spingeva,
quella, miccia a non perdere i colpi? La pelle, come stirata sulle ossa, sembrava raccontare di una morte in atto o, peggio ancora, già avvenuta...
E
lei,
godeva
di
quelle
mani
sfilate,
eleganti
come
non
mai.
No,
non
lo
erano
mai
state.
Oggi
poteva,
finalmente
senza
ribrezzo,
accarezzarle,
farle
sue. Forse, il suo sfinire così aveva quindi un senso… Le regalava questi momenti. Quante volte, per quelli, avrebbe scritto la parola rimorso?
Voleva scrivere la parola fine, quella notte e forse, c’era già stata. Era stanca ma non abbastanza. Forse. Come lei.
28 giugno 2022
Madre,
ci
sei
ancora?
Cosa
ho
dimenticato?
Cosa
mi
sfugge?
Cosa
devo
ancora
capire?
Seppure
per
caso,
parole
come
amore,
preghiera…le
ho
usate. Puoi andare…perché la parola perdono non mi chiuderà mai. Nessun uomo, nessun dio, dovrebbe mai usarla. Rimango in attesa
Di quella roccia, sei il vanto
Di quell’animale
che mordeva il tuo frutto
l’assassina
Della mia parola
L’origine indiscussa
La carne
che diventa verbo
Orrore
29 giugno 2022
La
notte
del
5
luglio
2022,
La
Morte
aveva
fatto
il
bucato
e
questa
volta,
si
era
ricordata
di
lei
e
per
sua
stessa
ammissione,
aveva
avuto
difficoltà
sul
programma
di
lavaggio.
Aveva
aspettato
troppo,
quel
povero
corpo.
Quale
potente
additivo
avrebbe
saputo
cancellare
le
tracce
di
cotanto
scempio?
Perché
la
vita
si
era
accanita
con
lei
fino
al
punto
di
togliere
anche
alla
morte
la
sua
prerogativa?
Nulla,
infatti,
proprio
nulla
avrebbe
potuto
restituire
a
quel
tessuto
offeso,
corrotto
fin
nella
sua
più
intima
trama,
macchiato
dell’inverosimile,
ancora
un
benché
minimo
segnale,
anche solo un dettaglio che potesse ricondurre a parole come dignità, esistenza o anche solo…compassione, forse?
Nessun additivo, nessun programma… Solo un’altra morte. Forse.
8 luglio2022
Lei,
la
madre,
era
tutta
lì.
Appoggiata
accanto
alla
sorella,
sul
sedile
di
un’auto
improbabile,
in
quel
sacchetto
blu
che
ricoverava
l’urna
perché
fosse
più pratico il trasporto delle ceneri… Tutto lì
Anna Maddaluno
Breve racconto
Opera in Concorso
"Attimi"
Accade all'improvviso, una mattina che non ti aspetti.
La tua vita è attaccata ad un filo ma tu non puoi muoverti paralizzata dal dolore.
E allora si attiva tutto il mondo per te.
Non c'è un attimo da perdere, potrebbe essere già tardi.
Poi tutto è buio e ti ritrovi sdraiato, ancora impossibilitata a muoverti.
Hai male dappertutto....ma ce l'hai fatta,
Ce l'hanno fatta!
Non ti sembra vero, sei proprio ed ancora tu.
Tutto il mondo che conosci e le persone che ami sono qui con te.
E chi non è con te fisicamente lo è con il cuore e l'anima.
Il cielo porta a te centinaia di braccia che tutte insieme ti sorreggono nel momento in cui sei più debole.
Sperano di essere forti, tifano perché tu resti lì con loro.
E piangi, non di tristezza o rabbia, ma per la gioia di esserci e di poter abbracciare e rivedere tutti.
Forse qualcuno non crede nei miracoli, ma tu si.
È andato tutto bene, e dopo la discesa ricomincia la salita. Ripida, fai tanta fatica ma non importa.
Lentamente, lentissimamente recuperi forza, la forza di ritornare a vivere e salutare quel cielo che ti aveva quasi portato con sé.
Alina Rizzi
Poesia
Opera in Concorso
Fiori rossi
Che l‘età avrebbe dato frutti
non era pensabile
ma che i frutti sarebbero stati
rossi
forse più plausibile –
rischiare avrebbe avuto
conseguenze
non altrettanti dubbi.
Benché scordare le regole
bofonchiate dal Vecchio Bianco
non era stato difficile per Eva
lo fu per me –
seimila anni di tentativi falliti
mi avevano alquanto arrugginita.
Germogli
Nessuno sapeva quanto era buia la terra
in cui annaspavo ogni santa domenica
benedetta e dannata dal tuo sguardo
lontano.
Né della fatica a correre tutt’attorno
perché
il tempo scivolasse nella sera o anche
dell’immobilità in cui giacevo – pietra al
sole
in attesa che mi rifiorissero le braccia
e mi spuntassero germogli dalle unghie
che la mia testa tra le tue mani
percepisse nuovamente fremere il vento
l’aria lacustre dalle finestre aperte
con gli occhi invasi d’azzurro.
Corolle
Quanti momenti può donarci la vita
da ricordare per sempre
senza sbavature né abbellimenti?
Quante opportunità può concederci questo
karma oltraggiato che non accetta preghiere?
Non ci resta che fiorire in stagioni propizie
aprire le corolle affamate di luce
abbeverarci di sole e trepida brezza
prima che di nuovo s’annuvoli l’orizzonte
e torni il freddo a scricchiolare nelle ossa
a ricordarci che l’estate viene sempre
prima dell’inverno e noi siamo nel cielo
niente di più – del tempo che sapremo
accogliere.
Quasi un’invenzione
Il mio tempo non esiste
non c’è un prima e non c’è un dopo
ma una disfunzione dell’anima
dal karma sentenziata.
Sono viva istante per istante
per lo più già morta
con le radici immerse in una terra scura
che non oso contemplare.
Non fosse per quell’unico abbraccio
le mani attorno alla vita
le dita intrecciate negli anni
-più deboli e determinate –
mi stenderei serena
ad accogliere i corvi dal becco giallo
così grati delle briciole di pane
che ogni mattina distribuisco sul prato.
Andrea Diella
Poesia
Opera in Concorso
Murice
Cuori gialli pulsano per le vie,
batte il tempo del silenzio
di giada, gocce d’ assenzio
bruciano il vespro,
tra tetti d’ Ottocento
telamoni sostengono il peso
d’ anime senza un senso,
dall’ atmosfera cobalto
In rilievo lesene,
arnie ondeggiano nel vuoto
prigioniere silenti brillano in catene,
ogni luce diviene selva
all’ angolo d’ ombra,
ogni luce fascina l’oscura matrice,
quando muore il murice
spiriti brindano col calice
attendendo il primo crepuscolo.
Dolce risveglio
Tue le vele sul mare di pelle
issano perle sul mio stomaco
rosei rami abbracciano il mio tronco
fumi densi nella stanza
disegnano fioche caravelle,
polvere di luce, come l’arabo abaco
entrano dalla finestra,
ad uno ad uno conto
come in sogno questa danza
quest’ attimo e
il tuo odore di timo
breccia fra le tue mura
dolce risveglio
la nostra cura.
La Passante
Quell’ iride acerba
coglievo tra mille che
cadevano timide sulla via e
a passi di treno
correva in gola l’amaro
candido d’ attimo
apriva il nocciolo di me.
Un brusio le labbra elettriche
nei cavi dell’anima che
non saprà mai il tuo nome.
Sul Duomo
Sguardi si accarezzano
sotto mani giunte
di marmo
rosa
le labbra
pregano per un altro rintocco
che suona assordante nelle vene.
Un secondo di pietra
tremiladuecento sospiri
e non è più cattedrale.
Eddi Pettenò
Poesia
Opera in Concorso
Ad AMEDEO Modigliani
Posso chiamarti Dedo? Anch’io ti ho dipinto. Eri davvero affascinante,
bellissimo.
I tuoi occhi erano meravigliosi: svelavano la tua dolce anima.
Nelle persone che ritraevi, cercavi il loro mistero, la loro essenza.
Eri capace, sensibilissimo, curioso, affamato di vita.
Vulcanico, geniale, pieno di energia, circondati da moltissimi amici ed
amanti.
Con la voglia di cambiare e di rivoluzionare la pittura e la scultura..
Se da un lato sei stato il Modigliani elegante, amante del lusso,
aristocratico
Dall’altro eri il Modì (“maledetto” in francese) che viveva in miseria,
alcolizzato, fumatore di oppio e malatissimo di tubercolosi.
La tua vita è stata brevissima, “spericolata”.
Avevi avuto tutto e quel tutto lo hai perso.
Il tuo unico scopo forse fu quelli di salvare i tuoi sogni.
A te
Ci sono partenze definitive, magari annunciate, ma non comprese.
Forse per non volerle accettare.
Quanti musi lunghi, quanti silenzi assordanti, quante mancanze ci sono
state tra noi di abbracci, di amore.
Adesso è tutto finito: tornare indietro nel tempo è impossibile.
Non ci sarà un altro giorno domani.
Ora sei nel cardellino del mattino, nella bianca farfalla, nella mutevole
nuvola, nelle stelle della sera.
In tutto ciò e nelle persone che hai amato
E nella mia anima
Per sempre.
Figli
Eravate gia nei miei pensieri di bambina.
Desiderati ed attesi con trepidazione ed
impazienza.
Amati, per sempre, dal primo sguardo.
Coccolati, viziati, assecondati,
resi adulti maturi.
Ed anche ora vi aspetto,
come un tempo e quando,
finalmente, vi vedo
sono colma d’amore
come la prima volta.
Modi e Jeanne
È stata una magia
Incontrarsi, innamorarsi,
convivere.
Le nostre anime si sono
Riconosciute e sono diventate una sola.
Povertà, fame, malattia
Non ci hanno separati.
Neppure la morte ci ha divisi.
Amor omnia vincit.
Anna Carmelino Saracino
Poesia
Opera in Concorso
Poeti per strada
La vita questa vita,
non ascolta se pur le si parla,
sussurra ancora, non ascolta.
Degenerata vita sei facile nel dar,
i tuoi talenti a chi per caso ti strizza
l'occhiolino,
non vuoi proprio, la longevità.
Se affidassi le tue correnti migratorie alle doti,
faresti,
un salto di qualità,
non meriteresti aspetti scialbi
la crudeltà, ti strappa le sicurezze.
Le battute che deridono i cenci armati si
vendono illusi
e noi liberi per le strade,
componiamo i nostri versi,
perché Poeti.
Rinata
Vedi il tuo umore
lascia che sia lui a tremare per difetto
che importa ha creduto, ed è deluso
Il perfettismo l'ha superato
lasciando dietro di sé
il magone,
una bend stonata che si scorna
tra rumori e disarmonie
ma che fa
è lui ad inciampare,
rotola, quasi,
precipita lungo la sconfinata area.
Sciame di colori,
pennellate verdi, terricci, ormai fiorita.
Cornice appesa ad una parete
è perfetta: sei rinata!
Ti insegna, impara:
Che spessore in questa frase
stracolma di canoni
incombenze
responsabilità: decisionali!
Questo il tuo aspetto
differimento
che c'è di male nella libera beatitudine
se e quando
trovasi qualcuno
è da far vivere e lasciar vivere.
È folle il rumore di chi grida
per piacere
abbracciamoci
per nulla perdere
guarda e non gridare al tuo cuore: "Aiutami,
aiutami non ce la faccio"!
così ti perdi
non ricordi la pura fedeltà
quanto
questa e l'altra eternità.
Il messaggio del poeta:
amarsi un pò!
Taormina 24 luglio
il sole brillava
sui fianchi etnee alture
le brine asciutte
variopinti colori
i fiori maculati (violette)
erbetta filina
corolle di margheritine
nel viottolo noi
due care persone
erbacee gira e volta (girasoli)
contati steli.
Nel basso
i fianchi
canaletti rumorosi
cinguettii
armoniose bolle d'acqua
qual divino il suscitar corre.
Cinzia Galimi
Poesia
Opera in Concorso
Patriarcato
Provo a rispondere al nulla
ma la mia voce è vuota,
un buco nero.
Il vostro è un monologo,
un assolo prepotente
su cui non ho voce:
un rantolo forse
o un vagito senza parola,
miriadi le vostre
così piene di verità
Gaza
Dalla nostra bocca nessun suono
mentre si compie strage di bambini.
Dalla nostra bocca nessuna parola
mentre si sgozza e si stupra
nel campo del vicino.
Dormienti sogniamo un mondo più giusto
di pacifisti e vegani.
Accanto a noi l'umanità si consuma.
Del cuore è nero vuoto il nostro petto.
La mia anima è un tempio
(mottetto)
La mia anima è un tempio,
io stessa vi entro senza
scarpe.
La mia anima è un tempio e
io lo frequento nuda.
Mentre pratico te
come
se andassi al polo nord.
Vecchiaia
Lo senti questo bisogno di vita
come un'urgenza?
Il tempo è poco
limitato a stagioni di nulla.
Un breve volo accarezza foglie tenere di
verde,
come pensieri che si agitano.
Respira ancora
corpo scialbo di tante rughe,
come ferite ti hanno solcato.
Risveglia la tua corteccia dura al sole di
sempre.
Una luna nuova ti accoglierà nella terra
e ti farà vivere ancora.
Ciro Esposito
Poesia
Opera in Concorso
Sotto la cenere
Illuminati occhi
alta la fronte
ne serbavo il ricordo,
come il lapillo che cova
sotto la cenere.
Lustri passati
ne sentivo il calore,
un refolo africo risveglia
l’inaspettata fiamma.
Semplice e trasparente
dal cuore grande,
s’è ripresa la vita guardando
altre il suo pianto.
Tu, che dei miei versi
or sei custode,
lasciati cullare
in questo mar, schiudendoti
a nuovi orizzonti.
Reti vuote
Reti raccolte,
alitato libeccio inebria vele
tra acque increspate.
Mani avvizzite, segnate
da granelli di sabbia,
dirigono la prora
su custodite rotte.
La canizie non sfugge
all’ineluttabile,
con il viso arso come grani
e raggrinziti ricordi
affiorano, della umana
eredità paterna.
Esule tra onde veleggia,
in una culla vuota
e senza governo,
lacerate reti
si trascinano sgonfie.
Veli Caduti
Veli caduti
di anime frante
che s’erano alzate,
schiudendo palpebre
di lacrime incolte.
Svelati son gli occhi
di donne coraggio,
che hanno stretto
in mano
le sorti
di un popolo
già Grande.
Beate immagini
Parole al vento
che non sanno d’aria,
ma di dolore
che ha mangiato sale
e del pianto antico
che non sa tornare.
Di stagioni bianche
si copre il viso
che l’acqua non lava
se non sei qui
a condividerne le crepe.
Desolato riavvolgersi
di mirrate immagini,
il chioccolar dell’acqua
di un ruscello,
il balzellar d’uccelli
a primavera,
tra cui, seperoso,
m’adagio.
Luisa Di Francesco
Poesia
Opera in Concorso
A maggio
Ritorna vuota dalla proda dei tetti
un’orbita devastata e contorta
s’alzano tessiture di polvere
fragili e misteriose
-parola pietosa non prolunga l’infinito-
sopita e sciupata
intride senza posa
s’aggrappa al passato
dispera e muore
cambiando modo di voce.
Caligine di guizzi
in una bracciata di rovi
e il ginepro contro un sasso
risuona più vicino.
Il luccichio di un canto
nel maggio del mattino.
Ad aspettare la luna
Sembra torpore malevolo
è timore di vita.
Il silenzio mette radici
cede frammenti di sogni
sull’orlo della tinozza
che monda i rimpianti:
gli errori tenuti distanti.
Lunghe lingue aguzze
non lambiscono dubbi
nelle ferite aperte
la sofferenza aleggia
e livida la mente.
Sono pensieri i vicoli tortuosi
veleno di passi, senza ritorni.
E mi penso, chiuso tra i muri
a rimestare gli affanni.
E non so più uscire, ad aspettare la luna.
Il porto dell’anima
La notte disfa l’alba
adduglio pensieri in ore.
Svegliami
voglio volare lontano oltre le ombre
di un giorno chiuso in una valigia
sentire gli uccelli parlottare tra i rami
e stare come seduto nelle cose
fra le onde che non approdano
e la gomena filata ad ormeggio.
Voglio essere voce solida dell’anima
perché il sole sorge sempre
e dal suo cielo irraggia
il letto delle mie parole.
Cieco di rimpianti, traccia il suo cerchio
ma non basta a sopravvivere
toccare terra e non solo acqua
in un altro mattino inerte
se la fortuna non arena l’anima al suo porto.
Anime bianche
Tra echi di quiete nel mezzo del fango
tra scarni passaggi coperti di affanno
tra campi di ossa frantumi di lotta
tra giovani arbusti di vita distrutta
tra fiori spuntati su marmi divelti
tra fili di erba di sangue schiarita
ove s’espande la linfa svanita
lacrime di pietra in giovani madri
piegate, su corpi di figli mai nati.
Il silenzio annuncia l’orrore
del suono chiamato dolore.
Grido straziato di vinti innocenti.
Anime bianche, di puro lucenti.
(Striscia di Gaza)
Luisa Di Francesco
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Lucia Spezzano
Poesia
Opera in Concorso
iNNO GREGGIALE DELLE PECORE LIBERE
Uomo che credi di essere il più saggio,
fra gli esseri viventi del creato,
non sai che hai perso tutte le occasioni,
per evitare lo schifo che hai combinato.
Eri nato per fare il grande direttore,
tu che nel mondo eri il più dotato,
ma hai orchestrato tutto con l'odio,
e dell'amore... ti sei dimenticato.
Ed ora sfoghi le tue frustrazioni
suonando il clacson da incazzato.
Uomo che dici di avere un linguaggio,
ma quando parli cerchi d'ingannare,
e con l'ipocrisia che hai nel profondo
vorresti comunicare con il resto del mondo?
Uomo che ti sei venduto per tre note
d'allegria,
non sapevi che la gioia dura poco,
ed il resto è malinconia.
Ed io che sono soltanto un animale,
ma un buon consiglio te lo posso dare:
se non vuoi fare la fine del deficiente,
fatti venire un cervello trasparente.
LA MORALISTA
'Na tartaruga nun se dava pace,
perchè nu je riusciva de grattasse bene
in fonno al carapace.
Già un' artra vorta che c'avea provato,
pe 'na manovra un po' troppo azzardata,
s'era trovata col bel risultato...
de sta' a rovescio pe' n'intera giornata.
Perciò a 'n lifante che s'annava a bere,
je chiede gentilmente: “Per piacere, non é che me potresti da' 'no struscio,
proprio in fonno ar guscio, appena sopra 'l sedere?”
“'Na bella grattata, n'se nega mai, specie a quarcuno
che già sta' nei guai.”
Risponne el lifante ch'era de bone maniere
e je inizia er massaggetto con piacere.
Er tempo de di': “A che sollievo! A che piacere! A che delizia!
'Sta bella grattata soda, quasi me fa veni' un brivido de coda!”
E passa de lì 'na razza moralista de zanzara,
che senza manco abbassa' er tono de fanfara
je grida a tutto fiato: “A sozzi pomicioni, v'ho beccato!…”
E sempre con 'sta stridula voce:
“Stateve accorti immondi peccatori, che... che... mo' ve metto in croce!...”
A senti' 'ste fregnacce tanto azzardate,
er lifante se convince subbito a concederje
un minnimo de du proboscidate.
Una: per poterla stampa' a contrasto duro,
l'altra: per ottene' 'n ingrandimento a fonno scuro.
A parla' male ed a sproposito de 'na tartaruga,
se po' rimedia' magari quarche scusa...
Ma a tira' accuse infondate a 'n ilifante adurto,
é raro che te possa perdona' l'insurto!...
IL REDENTORE
Quello che vedi in terra é già
giusto così com'è,
ma non potrai capirlo mai
se non ti chiedi il perché?
Il mondo è un letamaio, ma
per chi fede non ha
nella gran forza dell'amor
che tutto trasformerà.
Il mondo è un letamaio, ma
solo per chi odierà,
e non potrà conoscere
amore, gioia e pietà.
Mi raccontavan, quando ero bambino
di un Uomo che insegnava a perdonare,
mandato forse in terra da un destino
che gli uomini voleva tutti salvare.
Perciò era nato povero fra i poveri
ed aveva scelto la notte di Natale
ed anche se sapeva fare i miracoli
voleva che il miracolo più grande
lo facessero gli uomini
trasformando in bene tutto il male.
Ma mentre Lui diceva che soffrire
era il modo migliore per capire
gl'han contestato che dovea provarlo
e l'hanno condannato sul Calvario.
E forse solo allora hanno capito,
che un Uomo che riusciva ancora a pregare
per quelli che l'avevan crocifisso
era qualcuno che insegnava ad amare.
Il mondo è un letamaio, ma
un fiore sboccerà
e la gran forza dell'amor
tutto trasformerà.
Il mondo è un letamaio, ma
è una necessità,
per far crescere l'albero
della felicità.
LA CATENA DEGLI SCONTENTI
Chi c'ha er pane nun c'ha i denti!
Chi c'ha i denti nun c'ha er pane!
Chi c'ha pane e denti nun c'ha er salame!
Chi c'ha pane, denti e salame
si strugge, perché je manca la bicicletta!
Chi c'ha i denti, er pane, er salame e pure la bicicletta,
se duole di non averci la barchetta!
E chi già con tutte 'ste cose c'era nato,
ma guarda che disdetta,
c'aveva poco buon senso e, in compenso, troppa fretta!
Mejo.... farse abbasta' quel che già c'hai,
cercando di tenersi er più possibile lontano dai guai!
Lucia Spezzano
Breve racconto
Opera in Concorso
Il Maharaja ed il Saggio
C'era
una
volta
un
Maharaja,
che
malgrado
possedesse
enormi
ricchezze
e
un
piccolo
harem
di
bellissime
fanciulle,
non
riusciva
più
a
sentirsi
felice;
non
provava
interesse
per
alcuna
cosa
ed
il
suo
sogno
maggiore era quello di guadagnarsi il sonno eterno.
Siccome
il
Maharaja
era
un
uomo
giusto,
il
suo
popolo
gli
voleva
bene
e
lo
riteneva
indispensabile
per
la
felice
continuazione
del
regno.
Così
segretari,
ministri
e
persone
a
lui
vicino
avevano
cercato
di
interpellare
medici,
maghi
e
tutti
gli
illuminati,
nella
speranza
di
poter
guarire il loro caro sovrano.
Ma
ogni
tentativo
risultava
vano:
la
salute
del
Maharaja
peggiorava
sempre di più.
Un
giorno,
un
ambasciatore,
che
rientrava
da
terre
lontane,
riferì
di
aver
sentito
parlare
di
un
Saggio,
che
aveva
miracolosi
poteri
per
far
ritornare a chiunque la felicità.
I
ministri
si
diedero
subito
un
gran
da
fare
e
non
ebbero
pace
fin
quando non riuscirono a convocare a corte il Saggio.
Il
Maharaja
era
molto
scettico;
ma
l'uomo
gli
disse:
"Se
in
capo
a
due
mesi
non
sarai
ritornato
felice,
mi
potrai
tagliare
la
testa;
ma
per
guarire
devi
seguirmi
da
solo,
senza
portare
appresso
null'altro
che
un
saio
come
quello
che
io
vesto
e
dovrai
assolutamente
ubbidire
a
tutto ciò che ti dirò di fare."
Il
Maharaja
accettò
la
proposta
e
i
due
se
ne
andarono
come
umili
pellegrini.
Camminarono,
camminarono
per
giorni
e
giorni,
fin
quando
raggiunsero
lo
sperduto
paese
del
saggio.
I
pochi
poveracci,
che
lo
abitavano,
conducevano
una
vita
grama,
dandosi
un
gran
da
fare
a
lavorare
la
terra
pietrosa
per
trarne
quel
minimo
necessario
alla sopravvivenza delle loro famiglie.
Il
Saggio
disse
al
Maharaja:
"Domani
ti
sveglierai
all'alba
e
andrai
a
lavorare
insieme
ai
contadini,
che
ti
insegneranno
a
coltivare
la
terra."
Quando
il
Maharaja
rientrò
alla
sera
dal
lavoro
mangiò
con
grande
appetito
il
pane
inzuppato
nella
minestra
di
ceci,
poi
si
coricò
e
riposò
con piacere, come non faceva da tempo.
Dopo
un
mese
di
questa
vita
il
Maharaja
era
tornato
allegro
e
contento;
disse
al
Saggio:
"Mi
hai
convinto!
Ma
non
posso
ancora
affermare
di
essere
completamente
felice,
perché
penso
sempre
al
mio regno, alle mie mogli, ai miei figli: mi mancano molto."
"Appunto!"
-
ribadì
il
Saggio
-"
Sarai
felice
solo
quando
sarai
ritornato,
perché
ora
hai
potuto
sentire
la
mancanza
di
ciò
che
già
avevi
e
non
ti
dimenticherai più di questa esperienza..."
Un
contadino
che
lavorava
con
il
Maharaja,
udendo
la
strana
storia
disse
al
Saggio:
"
E'
facile
essere
felici
quando
si
ritorna
alle
proprie
ricchezze,
ma
a
me,
che
non
ho
nulla
e
fatico
invano
per
raggiungere
la felicità, non sarà mai concessa una tale fortuna."
"Ciò
che
asserisce
quest'uomo"
-
sottolineò
il
Maharaja
-"
è
pur
vero;
ecco dunque una persona che non potresti guarire..."
Allora
il
saggio
rispose:
"Tagliami
pure
la
testa
se
in
capo
a
due
mesi
non riuscirò a guarire anche costui."
E
preso
il
contadino
lo
racchiuse
in
una
gabbia,
che
fungeva
da
prigione lasciandolo con una ciotola d'acqua e una radice di rapa.
Passato
qualche
tempo,
andarono
a
liberarlo
ed
il
contadino,
che
ora
sognava
solo
la
libertà,
esclamò,
uscendo:
"Questo
è
il
giorno
più
bello della mia vita!"
"Beato
lui!"
-
brontolò
un
condannato
a
vita,
che
stava
nella
prigione
accanto
-
"Ecco
una
felicità
che
io
non
potrò
mai
avere
per
il
resto
dei
miei giorni."
Il
Maharaja,
per
la
seconda
volta,
puntualizzò:
"Ciò
che
dice
quest'uomo è pur vero!"
Il
Saggio
non
si
scompose
minimamente;
rispose:
"Tagliami
pure
la
testa se in capo a due mesi quest'uomo non ritornerà felice."
E
fatta
portare
una
croce
dentro
la
gabbia,
lo
inchiodò
per
benino
trapassandogli
mani
e
piedi.
Non
passò
molto
tempo
che
il
prigioniero
si
convinse
di
essere
molto
fortunato
a
stare
nella
prigione,
purché
gli
levassero
i
chiodi.
Allora
il
Maharaja,
rivolto
al
Saggio
sentenziò:
"Tu
sei
veramente
il
più
saggio
degli
uomini,
che
ho
conosciuto,
puoi
venire
alla
mia
corte
e
prendere
quello
che
più
desideri."
Il
Saggio
rispose:
"Ti
ringrazio
ma
non
me
ne
farei
nulla
delle
tue
ricchezze."
Il
Maharaja
ribadì:
"Ma
ci
sarà
pure
qualche
cosa,
che
ti
potrà
fare
veramente piacere."
Il
Saggio
si
limitò
a
sorridere;
allora
il
Maharaja,
sempre
più
incuriosito,
gli
chiese:
"ma
tu,
che
sei
così
saggio,
sarai
certamente
felice..." e l'altro "né felice, né infelice, semplicemente saggio."
Allora
il
Maharaja
aggiunse:
"Non
potrai
rifiutarti
di
prendere
in
moglie
la
mia
figlia
maggiore,
oltre
che
bella
è
anche
intelligente:
sicuramente
ti
farà
felice."
"Forse!"
rispose
il
Saggio.
"Ma
questo
non
mi darebbe comunque la felicità completa."
Allora
il
Maharaja
terminò:
"Non
ho
detto
che
sarai
felice
quando
la
sposerai,
ma
bensì
quando
riuscirai
a
riprendere
la
tua
libertà,
per
quel tanto che ti sarà concessa.”
Ciro Esposito
Libro di Poesie
Opera in Concorso
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Paolo Cattolico
Poesia
Opera in Concorso
Jumping
Sessanta vecchi, immobili, stanno in piedi
sul bordo del grande Edificio.
Non hanno un elastico di sicurezza
fissato al piede.
Forse qualcuno dovrebbe andare a vedere:
ho sentito storie
di strani suicidi di massa, ultimamente.
Fermo un passante; lui scuote la testa,
dice che sono statue di santi, lassù,
che una luce tremolante
sembra far muovere: tutto qui.
Sarà. Ma io continuo a vedere tanti vecchi,
sui tetti di Milano.
Magri, solitari e zitti nel freddo.
Senza l'elastico.
Le Melisse
Ci sono persone, si dice,
circondate da un'aura
visibile a pochi.
Hanno guance rotonde
e si muovono appena più lente
nell'acquario del mondo.
Vengono amate d’istinto
dal limpido sguardo dei bimbi.
Sono amiche delle foto in cornice
dall’incerto futuro.
Le incontri per le vie di Milano
che veleggia nel tempo,
tutta fulgida e snob.
Partenza silenziosa
Un giaguaro seduto
nella vasca da bagno
pensa alla moglie lontana
più volte tradita
a come sia assente
quel profumo di casa.
Un piccolo grumo procede tranquillo
verso le porte del cuore
dove andrà ad ostruire
un condotto vitale.
Mi manca, lui pensa,
ma ormai più nessuno
chiama questo col suo vero nome.
Se avessi soltanto…
La neve, una lacerazione, poi il vuoto.
Piazza Leonardo Da Vinci
Dalla antica fontana
sgorgano formule e sussurri
ed il sapere
si diffonde divertendosi
come tirar palle di neve
al suono di invisibili campane.
Così fan pace, nell’immensità del tempo,
Musica, Matematica e Poesia.
Paolo Formenti
Saggio
Opera in Concorso
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Vania Foreste
Libro
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Anna Maddaluno
Poesia
Opera in Concorso
Scrivi, Scrivi E Non Mollare
Cos'è questa Forza
Che ti muove dentro
Che ti dice scrivi,
Scrivi non mollare.
Un battito d'ali
Un vento improvviso
Che dentro fa male
Ma se esce può sempre
Più in alto farti volare.
E ciò che prima era buio
Sparisce all'istante,
Di tanti colori
si riempie il tuo mondo.
Ritorna il sorriso
Ritorni a sognare
Ritorni a volare
E allora un
respiro profondo,
La mente si apre
E l'incontro col mondo
Diventa reale
Si riempie di suoni.
Nell'aria il tuo fiato
Raggiunge anche altri
Ed il soffio vitale
Inizia ad andare
Da persona a persona.
Si comincia a cantare
E così tutti insieme
Si riprende a volare.
Maria Elena Mejani
Poesia
Opera in Concorso
Anima sottile
L'anima sottile della città
si arrampica
su pareti verticali
vorticose
verderame
di un mondo di passi sospesi
di occhi profondi
di luci violente
che nel loro ritrovare l'essenza
diventano trasparenze
colori sfumati.
Farfalle di vita eteree
volano alte oltre la realtà.
L'immaginario prende forma
per lasciare spazio
alla libertà di essere
ovunque comunque
qui e altrove.
Vite sospese
Su gelide acque
il colore della speranza
scalda chi sente il gelo della morte
sulla pelle
Nel silenzio della notte
nel mare profondo e periglioso
porti luce
ad occhi che luce hanno perso
porti luce
a chi sente svanire le forze
tra i frutti di un mare insidioso
un mare bellissimo
culla di vita
ma baratro di morte per i più
sfortunati.
Mani si tengono salde
per non scivolare
nei flutti mortali dell'indifferenza
per ricordarci che ancora può esistere
un'umanità umana.
Geografie invisibili
Volto
bruciato
dal sole
volto
solcato
dalla salsedine
Geografie
invisibili
scritte
su un atlante
improbabile
Mondo
dai volti
sfocati
sfocato
il mondo
Non ci sarà
Non ci sarà
un'altra primavera
per il tuo dolce sorriso
occhi di giada
che piangono lacrime
di rubini
e di smeraldi
pietre preziose
sono i tuoi sorrisi
persi in un sogno
di vita
svanita
come un soffio
di vento
venti di guerre
che non erano
solo un gioco
Maria Elena Mejani
Racconto breve
Opera in Concorso
Storia di un barattolo
C’è
stato
un
giorno
fatale
in
cui
mi
hanno
messo
da
parte
e
un
altro
ancor
più
fatale
in
cui mi hanno eliminato. Mi hanno buttato nel cassonetto della spazzatura.
Ho gridato: “No, nooooo! Posso ancora servire!”
Ma niente, non mi hanno sentito.
Ho
pianto
disperatamente,
perché
sapevo
che
sarei
finito
insieme
ad
altri
quintali
di
cose inutilizzate che inquinano il nostro pianeta.
Ed IO sono un “ambientalista convinto”!
Forse anche per interesse, per poter vivere più a lungo, comunque lo sono.
Nel
cassonetto
avevo
sempre
gli
occhi
aperti
e
la
testa
rivolta
verso
l’alto:
non
volevo
farmi
sommergere
da
tanti
altri
oggetti
(soffro
d’asma)
e
poi
speravo
sempre
in
un
miracolo!
°°°°°
Ecco
che
si
avvicina
una
persona
con
aria
circospetta.
Si
guarda
intorno,
guarda
nel
cassonetto,
si
guarda
ancora
intorno,
guarda
nuovamente
nel
cassonetto
e….incontra
i
miei occhi imploranti.
Subito ci capiamo!
Allunga
la
mano
verso
di
me,
si
guarda
intorno
e
con
fare
furtivo
mi
solleva,
mi
guarda
con un sorriso (immagina già cosa potrò diventare!) e mi nasconde nel suo zaino.
E’ chiuso, manca l’aria, ma mi sento bene,
So già che diventerò qualcosa di utile e di bello e questo mi mette di buon umore.
°°°°°
La
persona
che
mi
ha
portato
con
sé
è
un
vero
artista:
crea
oggetti
prendendo
cose
che gli altri buttano via; crea anche opere d’arte con questi rifiuti.
Fantastico!
Ho sempre sognato di diventare famoso.
E
così,
chiuso
nello
zaino
e
sballottolato
dai
sobbalzi
della
bici
dell’uomo
che
mi
ha
salvato
dalla
distruzione,
rotolo
nei
miei
sogni
e
già
mi
vedo
diventare
un
bel
portamatite,
un
originale
fermacarte,
colorato
con
colori
ad
acqua,
orgoglioso
del
mio
nuovo stato sociale.
°°°°°
Contenevo
fagioli,
ora
contengo
dentro
di
me
l’arte
e
la
creatività
del
mio
nuovo
amico.
Maria Augusta Rossi
Libro
Opera in Concorso
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Silvia Medetti
Libro
Opera in Concorso
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Indice degli Autori - In ordine di iscrizione
Claudiano Sironi
Saggio breve
Opera in Concorso
LA SCLERA BLU
Guardarsi
negli
occhi
è
un’esperienza
intima
che
richiama
la
connessione
visiva
tra
madre
e
figlio.
Marinella,
giovane
paziente
con
leucemia
intrattabile,
si
spegneva
lentamente,
priva
di
emoglobina
malgrado cure e trasfusioni.
In
un
tempo
lontano
ero
un
giovane
medico
e
osservavo
per
la
prima
volta
il
fenomeno
clinico
della
"sclera
blu",
dove,
a
causa
di
un’anemia
estrema,
le
sclere
degli
occhi
diventano
blu
trasparente,
rivelando
le
strutture interne fondo-retiniche.
Mi trovai a riflettere sull’anemia e le sue conseguenze.
L'anemia
consiste
nella
carenza
della
nostra
principale
linfa
vitale,
condizione
che
indebolisce
ed
avvicina
alla
morte.
Ma
cosa
rende
il
sangue
così
importante?
L’elemento
distintivo,
il
vero
propulsore
del
sangue,
è
una
molecola
di
antichissima
origine
evolutiva:
l’emoglobina.
Racchiusa
nei
globuli
rossi,
questa
molecola
è
un
capolavoro
di
ingegneria
biologica,
una
struttura
complessa
costituita da anelli (metilici) con al centro uno ione ferro.
L’emoglobina
svolge
un
ruolo
cruciale
nella
nostra
sopravvivenza:
è
responsabile
della
cattura
dell’ossigeno
negli
alveoli
polmonari,
del
suo
trasporto
attraverso
i
vasi
sanguigni
e
del
successivo
rilascio
in
organi
e
tessuti.
Questo
processo,
apparentemente
semplice,
è
in
realtà
una
meraviglia
della
natura,
risultato
di
miliardi
di
anni
di
evoluzione.
L’emoglobina,
a
sua
volta,
non
nasce
dal
nulla
ma
ha
radici
che
affondano
in
un
passato
ancora
più
remoto,
quando
la
vita
sul
nostro
pianeta era agli albori.
Circa
tre
miliardi
di
anni
fa,
un’alga
monocellulare
(un
cianobatterio
procariota,
talora
indicato
come
alga
blu/verde)
iniziò
a
utilizzare
l’energia
solare
mediante
la
costruzione
di
una
molecola
straordinaria:
la
clorofilla.
Tale
molecola
è
anch’essa
costituita
da
anelli
(metilici)
ma
con
uno
ione
magnesio
al
loro
centro,
in
luogo
del
ferro.
Nel
successivo
tempo
evolutivo
la
clorofilla
ha
rappresentato
il
modello
per
la
costruzione
di
altre
fondamentali
molecole
della
vita.
La
luce
solare,
catturata
da
questa
meravigliosa
macchina
biochimica,
ha
permesso
di
“saldare”
fotochimicamente
più
componenti
metiliche,
dando
origine
a
ulteriori
molecole
organo-
metalliche
sempre
più
complesse
e
adatte
alle
nuove
esigenze
della
vita.
La
più
importante
di
queste
macromolecole
derivate
è
stata
l’emoglobina,
capace
di
legare
l’ossigeno
e
trasportarlo
all’interno
buio dei nostri corpi.
Tutte
le
fondamentali
molecole
organo-metalliche
della
vita
(emoglobina,
emocianina,
il
protoeme
dei
citocromi,
la
stessa
vitamina
B12
e
altre
varianti
sviluppate
nei
molteplici
phyla
animali
e
vegetali)
hanno
quindi
origine
evolutiva
comune
nella
clorofilla,
la
straordinaria
molecola
che
ha
permesso
di
trasformare
l’energia
solare in bios.
Le
molecole
derivate
da
essa
–
emoglobina
in
primis
-
hanno
proseguito
il
compito,
permettendo
al
bios
di
continuare
a
funzionare
mediante
la
processazione
dell’ossigeno,
pur
in
assenza
di
diretta energia radiante.
Un
filo
evolutivo
lega
ogni
forma
vivente,
dall’alga
monocellulare
all’uomo.
E
il
sole
-
ovvero
la
luce
-
è
il
carburante
primo
di
ogni
declinazione
della
vita.
Questa
connessione
profonda
tra
tutte
le
forme
ci
ricorda
che
siamo
parte
di
un
tutto,
che
la
nostra
esistenza
è
intrecciata con quella di ogni altro essere vivente sul pianeta.
Mentre
Marinella
si
spegneva
ancora
senziente,
le
tenevo
la
mano,
incantato
dall’apparizione
di
quei
meravigliosi,
imploranti
occhi
blu.
La
sclera
blu,
segno
di
un
corpo
che
si
arrende
alla
malattia,
è
altresì
un simbolo di fragilità e di lotta, di bellezza e di dolore.
Quegli
occhi,
che
sembravano
riflettere
il
cielo,
ricordano
l’importanza
della
connessione
umana
e
della
forza
che
risiede
in
ognuno
di
noi.
La
sclera
blu,
con
la
sua
quieta
tristezza,
è
diventata
per
me
un
emblema
di
quel
legame
profondo
e
indissolubile
che
unisce tutti noi, come esseri viventi, nella grande rete della vita.
Sonia Maria Roberta Gagliardelli
Poesia
Opera in Concorso
Di Te, Di Me!
O mio Signore!
Un tocco di bontà
forse mi basterebbe
per vivere di Te.
E se i semi lasciati
ad ammuffire
in una tasca,
potessero essere sparsi
sul terreno,
forse nuovi germogli
nascerebbero.
E se una calda coperta
avvolgesse la mia nudità,
forse saprei trovare
il calore dell'amore che è in Te.
Ancora una volta, o mio Signore
volgi lo sguardo su di me,
cancella il rammarico
di non essere degna di Te
Fui Madre
Stavo in attesa,
stringendo sul ventre
le mie mani vuote
e dopo attimi intensi,
alle volte interminabili,
pronti a strapparti le membra,
fino a sentirti a pezzi...
Tu, miracolo grande, nascesti
e il tuo vagito scosse il vento.
E fu dolcezza infinita
sfiorare il tu piccolo corpo
e sentire che il senso della vita
si era compiuto.
Racconta un cane
Sono qui...
Abbandonato, affamato, legato.
Abbaio fino a non aver più fiato.
Sono qui all'angolo della via,
dispero ormai di aver più una casa,
un padrone da amare,
un bimbo con cui giocare.
Gente frettolosa passa,
fugace una carezza e poi scappa via.
Vieni, vieni vicino..
Non aver timore,
ho tante cose da raccontare,
immagini da ricordare.
Ho i brividi nelle ossa,
il cuore flebile,
lo sguardo triste
e l'ombra della notte
ormai vicina.
Scia
Scorre il giorno
carico di silenzi
così come la notte.
Tace il passato
frastuoni si disperdono
in echi.
Foschia di sogni
annegano l'amaro sapore
di forzate solitudini.
Giuseppe Puma
Poesia
Opera in Concorso
Tra le campagne
Degradano dolcemente
dalle colline iblee
le campagne che si nutrono
di sole e di mare
un mosaico di muri a secco
sono i loro confini le masserie
vecchie custodi di riti e di tradizioni
profumano di vita e di latte
le mani dei contadini
raccontano storie antiche
che narrano di lavoro di sacrifici di fatica
i tramonti posano sui tetti
i colori del crepuscolo e rivelano
il ciclico rinnovarsi della vita
nei luoghi che custodiscono i sogni.
Tempo fuori tempo
Chiedo al tempo
di concedermi solo un momento
ritornare indietro
per rimuovere le mie inquietudini
e ritrovare unicamente la felicità
un momento in cui il tempo mi restituisca
il mio passato tempo lasciar scivolare via
lo scoramento che giorno dopo giorno
logora l’anima e lo sconforto
triste compagno dei miei giorni
scoprire l’essenza
del mio tempo che è fuori tempo
non sono gli anni che mi pesano
né mi turba osservare la clessidra della vita
svuotarsi inesorabilmente
temo di sfinirmi
di smarrire l’abituale saggezza
di non trovare il tempo per accrescere l’amore
e placare il turbine dei pensieri
prima di levarmi in volo
con gli occhi rivolti all’infinito
finalmente quietato
finalmente sereno.
Ritorno… ascolto
Ritorno
per rivedere il mare
che accarezzato dal vento
lambisce pigramente
la mia spiaggia
placando l’inquietudine
che mi tormenta
ascolto
nel silenzio che mi circonda
l’eco dei passi di mia madre
lenti e striscianti
invadere dolorosamente la mia anima
suscitando
il triste presentimento
dell’epilogo della vita.
Ora sei vuota
Sei come una conchiglia vuota
sballottata dai marosi
su spiagge lontane
con il guscio corroso dalla salsedine
un tempo custodivi una perla
ora sei vuota
com’è vuota la misura
dei rimpianti
che accompagnano la mia solitudine
ora sei vuota
aneli a riposare
e affidare la tua stanchezza
al fondo limaccioso del mare
cullata dal fruscio delle onde
per sempre racchiuso
nel tuo guscio.
Arianna Sonia Scollo
Poesia
Opera in Concorso
Vivere ADESSO
Da fili e tubicini
intrecciati in una piantana
che sembra un albero di Natale
gocciolano lacrime veleno
Entra tossico nelle mie vene
si mescola al mio sangue
per combattere il male
che porto dentro
Male contro male
lotta tra mali
nel moltiplicare segni negativi
pulsa il vivere adesso
Tiglio E IL GELSOMINO
Il tiglio e il gelsomino
lungo la via
spandono fragranza
inebriano pensiero
affondo il respiro
e proseguo il cammino
Forte ROCCIA
Madre,
forte roccia
resiste alle intemperie
con sguardi benevoli
veglia su di me.
Protetta dal suo amore
Rientro nel grembo materno
Da UN’ ALTRA ANGOLAZIONE
Spinta dalla forza dell’Amore mio Grande
scivolo tra la gente, per le strade
guardo vetrine
anche i manichini recitano,
alzo lo sguardo
candide strie nel cielo azzurro,
Clicca sul nome per scorrere all’autore
Gianluca Padovan
Breve racconto
Opera in Concorso
Dai ricordi di Gigliola...
I
cadenzati
e
penetranti
suoni
della
sirena
davano
il
preallarme,
l’allarme
e
il
cessato
allarme
all’inerme
popolazione
civile.
Ma
prima
delle ostilità la sirena serviva a ben altri scopi.
Chi ricorda?
Ma, soprattutto, chi dimentica?
Ricordare
per
non
dimenticare
è
il
primo
passo
che
dovrebbe
condurre
a
non
ripetere
i
medesimi
errori.
E
dal
momento
che
oggi,
adesso,
l’incombenza
di
una
nuova
guerra
mondiale
è
alle
porte
occorre
riflettere
bene
su
ciò
che
è
stato,
su
ciò
che
hanno
vissuto
i
nostri
bisnonni,
i
nonni
e
i
nostri
genitori
alla
metà
dello
scorso
secolo.
Perché
la
guerra
colpisce,
ed
è
fatta
per
colpire,
soprattutto
la
popolazione civile.
Per questo motivo, talvolta, intervisto.
Per questo motivo, talvolta, racconto…
Durante
la
Prima
Guerra
Mondiale
si
erano
proposti
e
sperimentati
vari
sistemi
per
allertare
i
civili,
all’approssimarsi
degli
aerei
da
bombardamento
avversari.
Suono
delle
campane,
esplosione
di
razzi
e
petardi,
persino
il
suono
delle
trombette
da
postino
doveva
servire
ad
avvisare
gli
abitanti
di
città
e
paesi.
Con
l’approssimarsi
dei
nuovi
“venti di guerra” ci si è orientati verso l’utilizzo delle sole sirene.
Le
sirene
d’allarme
erano
prodotte
per
essere
installate
nelle
fabbriche,
negli
aeroporti,
nelle
caserme
dei
Vigili
del
Fuoco.
I
primi
tipi
di
sirena
erano
elettromagnetici,
a
membrana
vibrante,
ma
risultavano
poco
potenti.
Pertanto,
in
seguito,
s’impiegarono
anche
le
sirene elettromeccaniche, a turbamento d’aria.
Tutti questi dettagli si sono persi nel tempo. Perché?
In
un
documento
del
«Comune
di
Milano,
Ufficio
Tecnico
–
Divisione
VI,
Sezione
Servizi
industriali»
le
sirene
installate
a
Milano
tra
1933
e
1945
risultano
essere
state
cinquantatré.
I
conti
non
tornano
e
probabilmente
alcune
nuove
sirene
vengono
collocate
al
posto
di
quelle
obsolete,
seppure
nei
documenti
non
si
parli
di
sostituzioni.
Nello
specifico,
nel
1933
vi
è
l’installazione
di
«un
centralino
e
di
n°
15
sirene
tipo
SAAR»,
mentre
nel
1937
s’installano
altre
18
sirene.
L’anno
seguente
vi
è
lo
«Spostamento
di
n°
5
sirene
dal
Centro
alla
periferia».
Nel
1939
si
registra
l’«Installazione
di
n°
6
sirene
tipo
elettromeccaniche».
Agli
inizi
del
1940
abbiamo
il
«Trasporto
di
n°
6
sirene
dal
Centro
alla
periferia»
e
l’«Acquisto
ed
installazione
di
n°
6
sirene
elettromagnetiche
e
di
1
centralino
tipo
SIIS».
La
cifra
esatta
fluttua
tra
la
quarantina
e
la
sessantina
di
sirene
per
la
Città
di
Milano.
Durante
l’intervista
alla
signora
Gigliola
V.,
Classe
1934,
le
sirene
d’allarme “emergono” prepotentemente dai suoi ricordi.
Emergono
anche
e
soprattutto
i
rifugi
antiaerei,
con
i
soffitti
puntellati,
come
nel
rifugio
della
scuola
che
frequentava,
o
senza
“puntellature”
come
quello
privato
del
condominio
dove
abitava,
in
Via degli Imbriani.
Dal
1915
(inizio
della
prima
Guerra
Mondiale
per
l’Italia)
al
1945
(fine
della
Seconda
Guerra
Mondiale)
questi
così
detti
“rifugi
antiaerei”
dovevano
essere
indicati
alla
gente
come
“ricoveri
antiaerei”.
Difatti
gli
“addetti
ai
lavori”
e
soprattutto
la
“propaganda”
ritenevano
che
la
parola
“ricovero”
fosse
più
rassicurante
della
parola
“rifugio”.
Nelle
parole
della
signora
Gigliola
sono
presenti
le
maschere
antigas,
la
cassetta
del
pronto
soccorso
collocata
a
norma
di
legge
nel
rifugio
scolastico,
le
indicazioni
per
raggiungere
un
qualsiasi
rifugio
pubblico
milanese
sia
affisse
sia
dipinte
sulle
pareti
degli
edifici
oramai
in
rovina,
le
trincee
coperte,
la
schermatura
di
finestre
e
lucernai,
le
“casette”
fatte
costruire
dopo
la
guerra
dal
Comune
di
Milano
per
coloro
i
quali
avevano
perduto
l’abitazione
a
seguito
dei
bombardamenti aerei inglesi e americani.
Ma
nei
suoi
trascorsi
bellici
affiorano
lo
spettro
della
fame,
le
armi
controaerei,
gli
aeroplani
da
bombardamento
e
il
“Pippo”,
nomignolo
assegnato
a
velivoli
che
talvolta
solitari
sorvolavano
il
cielo,
magari
scattando foto, ma sicuramente mitragliando e bombardando.
Durante
l’intervista
le
domando:
«Lei
se
lo
ricorda
il
rifugio
antiaereo
della Scuola?».
«Sì,
me
lo
ricordo»,
risponde
la
signora
con
voce
ferma,
«prima
suonava
l’allarme,
o
meglio
il
“piccolo
allarme”
il
quale
dava
il
preavviso,
dopo
di
ché
vi
era
il
“grande
allarme”
che
segnalava
di
andare
nel
rifugio.
Quindi
gli
insegnanti,
classe
per
classe,
ci
ordinavano
e
scendevamo
in
questo
rifugio.
Gli
spazi
erano
situati
in
un
lungo
corridoio
e
nelle
stanzette
con
delle
panche
di
legno.
Appese
c’erano
le
maschere
antigas
e
la
cassetta
di
medicinali
e
pronto
soccorso.
Stavamo
nel
rifugio
fino
a
che
non
veniva
suonato
il
“cessato allarme” e ordinatamente ritornavamo in classe».
Le
chiedo
di
specificare
un
passaggio:
«Quindi
tutti
gli
alunni
e
le
alunne scendevano nei sotterranei della Scuola?».
«Sì.
Però
gli
alunni
erano
meno
in
quanto
molti
non
venivano
a
scuola.
Poi,
se
qualcheduno
abitava
molto
vicino
a
scuola,
era
possibile
che
la
mamma
o
il
papà
venissero
a
prenderlo
per
portarlo
a
casa.
In
ogni
caso
mi
ricordo
proprio
questo
lungo
corridoio
situato
qui
sotto…
con
i
muri
con
tante
“palafitte”…
ovvero
tanti
legni
che
sostenevano
la
volta.
Questo
mi
ricordo.
Oltre,
come
detto,
alla
fila
di
maschere
antigas
che
mi
facevano
molta
impressione
e
che
erano
lì
appese… e per fortuna non le abbiamo mai usate».
Osservo
la
signora
di
sottecchi,
intanto
che
trascrivo
le
sue
frasi
su
di
un
notes.
Mi
corrono
negli
occhi
i
manifesti
d’epoca,
i
segni
ancora
ben
visibili
delle
mitragliate
d’aereo
lungo
la
massicciata
ferroviaria
di
Via
Pellegrino
Rossi,
i
palazzi
mancanti
di
una
Milano
che
non
si
vuole
ricordare
nella
fretta
di
ricostruire.
Ma
torno
ai
rifugi
antiaerei… E le chiedo: «Per cortesia, me ne parli ancora…».
La
signora
Gigliola
prende
fiato,
si
raddrizza
sulla
seggiola
e
comincia:
«Nelle
case
dove
vi
era
la
possibilità
avevano
creato
un
rifugio
nelle
cantine.
Quando
suonava
l’allarme
c’era
un
“capo-
fabbricato”,
uno
della
casa,
con
una
fascia
al
braccio,
che
faceva
in
modo
che
tutti
scendessero
in
rifugio.
Mi
ricordo
che
ci
mettevano
dei
sacchi
pieni
di
terra,
perché
queste
cantine
davano
sul
marciapiede
dove
c’era
una
fessura
per
l’aria…
e
i
sacchi
servivano
proprio
a
coprire
questi
“spiragli”.
Le
finestre
delle
abitazioni
erano
coperte,
schermate,
con
carta
blu,
per
via
dell’oscuramento…
Giù
nel
rifugio
c’erano
tutti
i
bambini
del
condominio
ed
eravamo
tutti
giovani
più
o
meno
della
stessa
età
e
giocavamo…
nell’incoscienza
dei
bambini.
Sotto
c’erano
delle
panche
per
potersi
sedere
e
giocavamo
al
“telefono
senza
fili”,
oppure
a
contare
i
topi
che
passavano
sulle
tubature…».
«Si
ricorda»,
le
domando
ancora,
«con
quale
frequenza
suonavano
le
sirene dell’allarme antiaereo?».
«A
volte
molto
spesso,
a
volte
magari
passavamo
anche
una
notte
tranquilli…
Quello
che
faceva
più
paura
era
la
notte,
perché
il
buio
toglieva
la
luce
e
quindi
ci
diventava
più
difficile
tutto.
E
dicevano
che
nelle
notti
di
luna,
quando
la
città
era
così
ben
illuminata
soprattutto
con
il
bel
tempo,
passava
un
aereo
che
avevano
chiamato
“Pippo”.
E
veniva,
ma
non
si
sa
se
fosse
per
ricognizione
o
altro,
questo
non
lo
ricordo.
E
dicevano:
“Guarda
che
è
passato
Pippo…
è
venuto
a
vedere…”».
Sto
per
formulare
l’ennesima
domanda
ma
la
signora,
con
molto
garbo,
mi
fa
un
cenno
con
la
mano
e
guardandomi
negli
occhi
dice:
«La
fame.
Quella
me
la
ricordo
molto
bene.
Nella
mensa
pubblica
di
Piazzale
Lugano
andavamo
con
le
tessere
che
ognuno
di
noi
aveva
e
ogni
giorno
staccavamo
il
quadratino
della
giornata,
che
ci
dava
diritto
a
un
piatto…
ma
no,
un
po’
meno…
o
meglio
a
una
mestolata
di
minestra
o
qualcosa
d’altro
da
mangiare.
Io
avevo
sette
od
otto
anni
e
andavo a prendere i pasti alla mensa…».
Cos’altro aggiungere?
Maria Carla Baroni
Poesia
Opera in Concorso
Onda da cavalcare
Il tempo che ci è concesso
è un’onda da cavalcare
fino a che ci schianta
alla riva della morte.
Alla MADRE TERRA
Grande Dea delle acque
prima fonte d’ogni vita fuggente
Madre Terra dall’immenso grembo
da cui la vita nasce
e dopo morta rinasce
in cicli di continuo divenire
ti amerò fino alla fine
del tempo a me assegnato
e sogno che un abbraccio di donne
con mani di foglie e cuore di sole
ti salverà.
Yeruscialaiym
Cerchia di colline
di ulivi d’argento e bianchi monumenti
intorno alla città antica cerchiata
dalle belle mura accoglienti e
protettive.
Capitale pretesa solo per sé
da un potere che ritorce
le distruzioni della Roma imperiale
e i roghi di Spagna e di Germania
su un popolo che adora
un altro nome dello stesso dio
e coltiva la stessa terra.
Potere che ha eretto
un lungo muro osceno
per tagliare due popoli
e una terra.
Quando RIPROVEREMO
Quando riproveremo a fare
il comunismo
dovremo farlo come un mare
ondoso di confronti e conflitti
spumeggiante di libertà
e sapienza di donne.
Conflitti ora bui ora brillanti
senza la cappa del partito/Stato
opprimente onnipresente
pur astratto e lontano
come adesso
algoritmi e mercato.
Susanna Gabrielli
Poesia
Opera in Concorso
Noi
"Siamo lontani
eppure così vicini,
sempre in guerra
fino alla morte,
ma se tendo la mano
sono sicura di trovare la tua!"
Sconosciuto
"Ti mando un bacio lieve come un
soffio
con tutto il mio cuore
e con tutta la forza del mio amore,
così che possa attraversare lo
spazio ed il tempo
per raggiungerti dovunque tu sia e
chiunque tu sia!"
Questa NOTTE È SOLO MIA
Una ntte piena di stelle
che brillano solo per me,
due gatti passeggiano sotto un cielo
blu,
mentre io guardo questa notte
meravigliosa.
Mi sento finalmente serena.
L'aria fresca
allontana tutte le mie paure,
ora c’è tanta dolcezza e pace in me.
Io so che questa notte è unica,
questa notte
è solo mia!
Canta PENSIERO
Canta pensiero
canta nel silenzio della notte.
Canta pensiero
canta per tutto l'amore, la gioia e la vita.
Canta pensiero,
canta per tutto il dolore e la rabbia
che ci sono in te.
Canta pensiero
canta pensiero per i ricordi
che non vanno via.
Canta pensiero
canta per le tue lotte
e non arrenderti mai.
Canta pensiero
canta per il futuro
che c’è nelle tue mani.
Canta pensiero
canta per la musica
che hai nell'anima.
Canta pensiero
canta per la solitudine
che ti sorprende.
Canta pensiero
canta per la tristezza
che invade il tuo cuore.
Canta pensiero
canta per l'amico
che è un dono prezioso.
Canta pensiero
canta per la bellezza
che c’è dentro di te.
Canta pensiero,
canta per il sorriso
di un angelo.
Canta pensiero,
canta per il sole
che sorgerà domani solo per te!
Antonella Leano
Breve racconto
Opera in Concorso
Sono rimasta fuori per guardare dentro
Mi
giro
sempre
a
guardare
il
cancello
richiudersi
dietro
di
me,
prima
di avvicinarmi alla guardiola.
Dalla
guardiola
all’edificio
dello
studio
bisogna
percorrere
cinquanta
metri.
Ma
non
sono
sicura,
non
sono
brava
a
calcolare
le
distanze
in
metri.
Sono
settantacinque
passi,
questo
lo
posso
dire
con
certezza
perché
io conto i passi.
Il vialetto che porta al palazzo dello studio è in salita.
Al
settantesimo
passo,
al
piano
rialzato,
c’è
la
finestra
dello
studio.
Dopo cinque passi ancora, su una scala di tre gradini c’è il citofono.
Salendo, si vede la luce dietro alla tenda bianca.
Guardo sempre se la luce è accesa, prima di salire le scale.
Solitamente
è
abbassata,
grazie
a
un
dimmer
che
lui
non
gira
mai
al
massimo
della
potenza,
perché
gli
piace
la
luce
soffusa.
Me
lo
disse
un
giorno che gli chiesi se per caso non si fosse guastata la lampada.
Già
da
fuori
si
può
sentire
la
tranquillità
che
trasmette
quella
stanza,
lo si capisce da quella luce fioca.
Personalmente,
alla
luce
così
tenue,
preferisco
i
led
bianchi
e
luminosi.
Ma
in
quella
stanza
tutto
è
intonato,
anche
quelle
luci
senza
personalità, là dentro, sembrano avere carattere.
La porta dello studio dista dodici passi dal portoncino.
Mi
sono
fermata
a
fissare
la
finestra
e
la
luce
dietro
la
tenda,
dal
vialetto.
Guardo
sempre
la
finestra
da
fuori
al
vialetto
prima
di
prendere
le
scale, senza vedere nient’altro che la tenda bianca, appena illuminata.
Stavolta,
invece,
tra
la
finestra
e
la
luce
fioca
c’era
la
sua
schiena
che
rompeva
i
miei
schemi,
stravolgendo
un’abitudine
che
ogni
volta
che
arrivo mi dona certezza.
Sono
rimasta
a
guardare
da
fuori
e
lui
era
lì,
così
immobile
che
per
qualche istante ho pensato che stesse dormendo.
Poi
si
è
mosso,
ha
allungato
un
braccio
per
prendere
una
penna
e
rigirarla tra le dita, abbassando il capo come per leggere qualcosa.
L’ho
immaginato
a
interrogarsi
sulle
mie
ossessioni,
con
gli
occhiali
neri
e
lo
sguardo
concentrato
sul
taccuino
che
tiene
sempre
sulle
ginocchia
durante
le
sedute,
come
fa
quando
gli
parlo
dal
divanetto,
seduta all’altro lato della stanza.
Mi
sono
chiesta
se
quei
rimedi
che
mi
consiglia
li
pensa
per
me
soltanto
o
fanno
parte
di
una
lista
che
distribuisce
a
tutte
le
persone
che entrano in quella stanza con la luce fioca.
A
un
certo
punto
si
è
alzato
e
ha
agitato
il
braccio
come
se
tirasse
un
pugno
in
aria,
poi
lo
ha
piegato,
forse
per
guardare
l’orologio.
Istintivamente
l’ho
fatto
anch’io
e
ho
realizzato
di
essere
in
ritardo
di
un
quarto
d’ora
al
nostro
appuntamento
e,
proprio
in
quel
momento,
ha iniziato a piovere piano.
Le
gocce
erano
un
sollievo
all’afa
che
non
vuole
andar
via
e
io,
come
al solito, non avevo l’ombrello.
L’ho
visto
sedersi
di
nuovo
e
portare
una
mano
alla
tempia
e
ho
ricordato
quel
suo
gesto
di
schiacciarsi
gli
occhi
col
pollice
e
il
medio
della
mano
sinistra,
quando
gli
dissi
che
in
quella
stanza,
attraverso
di
lui,
ho
capito
che
esistono
ancora
uomini
gentili,
che
forse
potevo
smetterla
di
notare
solo
gli
sguardi
d’accusa
negli
occhi
di
quelli
che
incrocio,
che
potevo
sperare
di
innamorarmi
ancora
e
magari
camminare sulle fughe del pavimento senza contare tutti i miei passi.
Solo
quando
chiusi
la
bocca,
mi
resi
conto
di
aver
detto
proprio
innamorarmi
e
provai
a
nascondere
l’imbarazzo
che
mi
bruciava
le
guance.
Poi
lui
fece
quel
gesto
di
schiacciarsi
gli
occhi
e
io
mi
sentii
una scema.
Allora
gli
dissi
che
per
il
momento
stavo
bene
così
e
comunque
non
sarei più tornata qui se un giorno capissi di essermi innamorata di lui.
Lui
rispose
che
sarebbe
stato
impossibile
che
questo
accada,
perché
i
sentimenti
si
basano
su
una
conoscenza
nel
nostro
caso
troppo
limitata,
in
quanto
“il
codice
deontologico
vieta
qualsiasi
coinvolgimento
per
il
bene
del
paziente”
eccetera,
e
mentre
mi
spiegava
tutte
le
motivazioni
di
una
distanza
che
cercava
di
mantenere
e
che
io,
puntualmente,
valicavo,
spingeva
all’interno
della testa le pupille, come se volesse spegnere un interruttore.
Sotto
alla
pioggia,
dal
vialetto,
mi
sono
chiesta
quale
pensiero,
stavolta, stava cercando di spegnere.
All’improvviso, si è alzato dalla sedia ed è sparito dalla mia visuale.
Ho
immaginato
che
fosse
uscito
a
cercarmi,
invece
dopo
qualche
secondo
si
è
accesa
la
luce
della
stanza
accanto
e
ho
capito
che,
semplicemente,
era
andato
in
bagno.
Ho
aspettato
qualche
minuto
e
poi
ho
fatto
i
cinque
passi
avanti,
ho
salito
i
tre
gradini
e
ho
raggiunto
il citofono.
Ho
sfiorato
con
l’indice
tutte
le
targhette
dei
cognomi,
prima
di
fermarmi sul suo e sentire il freddo del pulsante sotto al polpastrello.
Ho guardato l’orologio prima di citofonare.
Guardo sempre l’orologio prima di citofonare.
Detesto
sembrare
ansiosa
e
arrivare
prima
del
previsto
all’appuntamento, anche se sapevo benissimo di essere in ritardo.
Ma poi, ho toccato di nuovo il citofono e non ho suonato.
Sono
tornata
nel
vialetto
a
guardare
dentro
dall’esterno
e
lui
era
di
nuovo lì, seduto alla sua scrivania e di sé mi dava ancora la schiena.
Mi
sono
rabbuiata,
come
le
nuvole
che
in
cielo
avanzavano
minacciose.
Bramavo
di
vedergli
il
viso,
scoprire
se
era
felice
o
triste,
se
infastidito
dal
mio
ritardo
o
preoccupato.
Invece
era
lì,
come
se
fosse
tutto
logico
che
lui
fosse
all’interno
e
io
fossi
lì
fuori,
sotto
alla
pioggia che ormai non aveva più freno e cadeva, a grandi gocce.
Si
è
chinato,
forse
per
scarabocchiare
qualcosa
su
un
foglio
e
io
ho
immaginato
che
scrivesse
il
mio
nome
per
poi
cancellarlo,
così
tante
volte quanti sono i passi che ci separavano.
E
mentre
mi
figuravo
riccioli
di
inchiostro,
ho
avvertito
la
blusa
intrisa
di
pioggia
dietro
la
schiena
e
un
ciuffo
di
capelli
appiccicato
sugli occhiali.
Ho
provato
a
ripararmi
la
testa
con
la
borsa.
Senza
accorgermi
che
era
aperta,
ho
rovesciato
il
contenuto
nelle
pozzanghere
che
si
erano
formate
attorno
ai
piedi
e
nello
stesso
istante
in
cui
si
è
rotto
lo
specchietto della cipria cadendo, è esploso un tuono.
Lui
si
è
girato
di
scatto
a
guardare
fuori
e
io
ero
lì,
sulla
traiettoria
del
suo sguardo interrogativo.
Uscirà
di
corsa
per
ripararmi
con
un
ombrello,
ho
pensato.
Invece,
lui
è
rimasto
lì
dentro,
ghiacciato
in
quella
penombra
che
sembrava
lo
paralizzasse,
in
una
posa
morbida,
con
la
mano
appoggiata
al
davanzale.
Ha aperto la bocca.
Io ho alzato la mano sinistra.
Vista
da
fuori
sembrava
lo
stessi
salutando,
nella
mia
mente
fotografavo
un’istantanea
per
immortalare
il
tempo
in
quell’attimo
di
connessione.
Ha
chiuso
e
riaperto
gli
occhi
lentamente,
alzando
un
lato
della
bocca
in un sorriso a metà.
La
pioggia
si
è
fermata
di
colpo,
lasciando
spazio
a
un
silenzio
insopportabile.
Lui
ha
dato
un
colpo
di
testa
all’aria
e,
dal
labiale,
ho
letto
un
gentile
“entra”.
È
stato
in
quel
momento
che
ho
capito,
ho
raccolto
i
cocci
dello
specchietto e me ne sono andata.
Luigi Giurdanella
Poesia
Opera in Concorso
Intelligenza ARTIFICIALE
Che importanza può avere se si fa sera
se il gioco della vita defluisce,
se senti che ti manca il fiato.
Che importanza può avere
se sei stanco di sommare,
se ti scivola la penna dalla mano.
Che importanza può avere
se ti consumano pensieri
che non ti lasciano stare
Che importanza può avere!
Basta schiacciare un tasto
e viene fuori lo stesso il risultato…
Il Test
Il test l’ha fatto?
Si, il test l’ho fatto,
Il test attitudinale, e molto bene!
Pensa che occhieggiando
ruffianamente
ho chiesto spiegazioni all’assistente
e mi è stato risposto sibillinamente:
- Non sempre due più due fa quattro…
-
Einstein cosa avrebbe fatto?
Io ho dato tutte le risposte.
Ora seduto a questa scrivania
guardo la mole di scartoffie
e la polvere accumulatasi da anni,
guardo fuori dalla finestra
un triangolo di cielo
e mi chiedo:
- Ma le ho sbagliate proprio tutte
le risposte? –
La ROBA
… Ci si chiede se vale la pena
di possedere, conservare…
Quando la roba scompare
o perché persa
o ancor peggio rubata
(come oggi accade spesso),
dopo un inevitabile scoramento
e un caldo rimpianto
ricordando la storia dell’oggetto,
pensi all’ineluttabilità della vita,
alla precarietà del possesso…
Ti chiedi di chi è in fin dei conti
questo mondo!
E ti rendi conto
che non lo puoi chiudere
a doppia mandata.
Memento
Ricordati di guardare la scadenza.
Occhio a quando scade la derrata.
Ed io, molto attento a quelle date,
mi sento travolto
dal tempo che passa,
rilevato giorno dopo giorno
dalla data di scadenza
del cartone del latte !
Angela Cristina
Poesia
Opera in Concorso
L'uomo degli aquiloni
Il mare dalla finestra
schizza, sospira e spruzza
è un capolavoro su tela
sfumature d'azzurro e blu
irrefrenabile energia vitale,
schianti d'acqua, guizzi di pesciolini
scintillìo galleggiante, sinuoso movimento.
Le onde dalla finestra
lasciarsi srotolare, perdersi nel vento salato
mentre s'addormentano raffreddando sassi roventi
schiuma bianca si scioglie e il sole innamorato.
La linea d'orizzonte impercettibile sconfina
tra l'immensità celeste e la terrena umana viltà.
Aria salubre marina arrugginisce i lampioni
è un anno in più, sono sbiadite le insegne
e l'uomo con gli aquiloni colora le poche nuvole
solo per un attimo, poi passa.
Come l'estate.
Duecentododici
Siamo numeri viventi, sballottati
estratti, sfidiamo a carte la sorte
codici a barre, identità digitali
combinazioni, sentimenti in cassaforte.
Siamo voti, tabelline da scordare
partita doppia tra l'avere e il dare
vite con un bilancio che non quadra mai.
Tiri di dadi, intrappolati nella casella di un gioco.
Siamo numeri in coda alle poste
registratori di cassa, conti correnti.
Per qualcuno, siamo forse ancora lettere
per comporre un nome da ricordare
tra innumerevoli volti, numeri di chiamate perse
migliaia di stelle, zampette di millepiedi,
Giorni di un almanacco, ore squillanti della sveglia
un numero di chiave provvisoria, un terrazzino
da dove respirando puoi guardare il mare.
L'infinito.
Ali di vento
E' il vento, profumo di lavanda nell'aria;
vento bambino, ruba un palloncino
trottola di colori proiettati
danza con le girandole, fa ruzzolare le nuvole.
Vento invadente, spifferi striscianti
trasporta musica da una finestra.
Vento che inquieta e insieme t'innamora.
Il vento audace, solleva i vestiti leggeri
fa perdere cappelli di paglia
e incoraggia l'aprirsi di ali
spoglia dalle nuvole il sole, rallegra girasoli spauriti
riaccende scintille, braci che credevi spente.
Poi rallenta la mia corsa, osservo attorno
migrare di anatre al calare del giorno
il campanile nella pozzanghera a testa in giù.
E io sono come il vento
non ho amore da sprecare, né tempo da stracciare
nell'avvolgersi di uragani, ho voglia ancora di volare!
La pace avvelenata
La pace invocata, ma sempre utopia
per noi soldati, di questa disumana umanità.
La pace disarmata, la pace disarmante
la pace sperata, la pace disperata
la pace bestemmiata, la pace assassinata
la pace violentata, la pace deturpata
Pace è una parola dolce
che ci piace avere in bocca.
Rispetto è una parola buona
la mastichiamo volentieri.
La pace in realtà
è una colomba in gabbia
che non imparerà a volare
è una scatola vuota, una mano chiusa
un faro rotto, una luce spenta
che potrebbe, ma non illumina mai.
La pace è illusione, la pace disillusa
la pace che non c'è